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LaDestraroman
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Alternativa Per 'Italia
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I Democratici
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L'Italia dei Valori
Partito Politici italiano
Sos Italia
Fiamma Tricolore
Partito Sardo D'Azione
Rinnovamento Italiano
Rifondazione Comunista
Verdi
VERDIVERDI
SVP
UDC Indice
Considerazioni generali 1
La società italiana al 2010 13
Processi formativi 49
Lavoro, professionalità, rappresentanze 61
Il sistema di welfare 71
Territorio e reti 83
I soggetti economici dello sviluppo 93
Comunicazione e media 107
Governo pubblico 119
Sicurezza e cittadinanza 129
Considerazioni generali
(pp. XI - XXIV del volume)
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
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1. Sta per volgere al termine quel biennio 2009-2010 che era stato annunciato
come portatore di una crisi economica e sociale senza precedenti. E non si
sfugge alla sensazione che nella psicologia collettiva esso sia passato senza
sortire gli effetti dirompenti che allora erano stati immaginati. Abbiamo
resistito ai mesi e agli eventi più drammatici in virtù della qualità strutturale del
nostro modello di sviluppo; pur con una evidente fatica del vivere e dolorose
emarginazioni occupazionali, abbiamo tenuto il livello dei redditi e dei
consumi; negli ultimi mesi abbiamo una riemersione della fiducia in una per
ora incerta ripresa; qualche sintomo di movimento comincia ad essere
registrato, specie sul piano della presenza di tante nostre imprese nei mercati
emergenti. Arrivano quotidianamente ondate di paura, quasi sgomento, di
fronte all’aggressività della speculazione internazionale sui nostri conti
pubblici; ma la psicologia collettiva non le introietta, forse perché sono paure
che vengono da circuiti astrali e lontani, non dominabili dai soggetti del
sistema, che al massimo mettono in conto un aumento della già citata fatica di
vivere.
2. Se la cosa non desse scandalo, potremmo allora − di fronte ad uno scenario
scontato − essere per una volta liberi dalla coazione ad aspettare e/o prevedere
“cosa c’è dietro l’angolo”, coazione del resto del tutto comprensibile in chi
scrive e/o legge un rapporto socioeconomico a cadenza annuale.
Potremmo più sommessamente rivolgere l’attenzione ad una verifica di cosa è
diventata la società italiana dopo un affannoso e travagliato decennio, che ha
avuto il suo culmine delle paure nell’ultimo biennio, ma che è stato segnato in
tutta la sua durata da una continua resistenza collettiva a sintomi e processi di
declino. Una resistenza che in qualche misura ci ha appagato, ma anche un po’
consumato, facendo sorgere il dubbio che, anche se ripartisse a breve la marcia
dello sviluppo, la nostra società non avrebbe spessore e vigore adeguati alle
sfide complesse che dovremo affrontare.
Replicare ulteriormente il modello italiano, come abbiamo fatto negli ultimi
anni, sarà anche una utile arma per difenderci più o meno bene dalle crisi
planetarie o dal declino interno, ma non garantisce ripresa reale e, quel che più
importa, collettivamente partecipata, così come ampiamente partecipato è stato
il nostro sviluppo negli ultimi decenni.
3. Spessore e vigore, si è detto, nella consapevolezza che le due cose vanno
insieme, visto che il vigore non è pura espressione di energia e volontà psichica
collettive, ma è l’espressione dinamica di una complessa maturazione della
società.
Ed è su questa maturazione che crescono i dubbi: nell’attuale realtà italiana
rimbalzano spesso sensazioni di fragilità sia personali che di massa, che fanno
pensare ad una perdita di consistenza (anche morale e psichica) del sistema nel
suo complesso. È frequente il riscontro di comportamenti e atteggiamenti
spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi o arrangiatorii, prigionieri
delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
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e futuro. Con una rassegnazione implicita e diffusa non solo alla grande
violenza della criminalità organizzata (“non c’è niente da fare”), ma anche alla
insensatezza di molte insensatezze quotidiane (“siamo tutti un po’ matti”).
Una società, in sintesi, insicura della sua sostanza umana. E se si guarda ai
livelli più alti del dibattito sociopolitico alto (rigore e ripresa, austerità e
sviluppo) viene il dubbio che esso voli alto proprio perché non se la sente di
affrontare il nodo, che si è andato aggrovigliando negli anni, di un franare
verso il basso della intima consistenza di individui, soggetti collettivi,
istituzioni.
4. Ma cosa frana in basso e crea quel senso di piatto senza rilievi significativi in
cui ci sentiamo immersi (l’heideggeriano “il deserto cresce”)?
Sono franati in basso in primo luogo (lo segnalammo un anno fa) i rilievi alti e
nobili della nostra vita sociale e sociopolitica (l’eredità risorgimentale, il laico
primato dello Stato, la cultura del riformismo, la stessa fede in uno sviluppo
continuato e progressivo).
Sono al tempo stesso franate in basso alcune rugosità significative, che hanno
peraltro fatto storia collettiva, se solo si pensa alla diffusa desublimazione di
archetipi, di ideali, di figure di riferimento; o se si pensa alla perdita di
consistenza dei legami e delle relazioni sociali a tutti i livelli, che
condannavano i singoli a quello stato di isolamento che abbiamo in passato
definito come “mucillagine”; o se si pensa alla progressiva delusione per le
istanze del primato del mercato e della liberalizzazione/privatizzazione
dell’economia; o se si pensa anche all’irresistibile declino dell’opzione per una
verticalizzazione (e personalizzazione) del potere ai fini di un salutare
decisionismo di chi governa.
E in terzo luogo sono franati in basso (specialmente se si pensa alle psicologie
individuali) i riferimenti della collocazione temporale e spaziale della vita
quotidiana. La modernità, la post-modernità, la globalizzazione, la
planetarizzazione hanno creato un mondo in cui il tempo è azzerato (il
cosiddetto tempo reale) e così è pure azzerato lo spazio (con la simultaneità dei
fenomeni in ogni parte del mondo); e dove quindi si sfarinano i significati che
sempre le distanze e il tempo hanno creato nella vita dei singoli e dei popoli.
5. Tutto si appiattisce, vince solo una dimensione orizzontale, spesso vuota, tanto
che è stato detto che il mondo globalizzato è “un campo di calcio senza
neppure il rilievo delle porte dove indirizzare la palla”. Pur senza la stessa
eleganza, la citazione richiama “il deserto cresce” sopra richiamato.
Questa crescente tendenza all’orizzontalità delle dinamiche socioeconomica e
sociopolitica non dovrebbe preoccupare più di tanto noi che per primi
l’abbiamo capita e in qualche modo valorizzata (da quando, all’inizio degli
anni ’70, imponemmo tematiche quali l’economia sommersa, la piccola
impresa, il localismo economico). Ma abbiamo dovuto nel tempo constatare
con rincrescimento come la cultura sociopolitica non abbia saputo elaborare
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
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idee e prassi coerenti con l’orizzontalità crescente, cioè con il crescente
policentrismo dei soggetti e dei poteri. Anzi è andata in voluta controtendenza,
con la enfasi data alla stagione non brillantissima della verticalizzazione e
concentrazione personalizzata del potere.
Non ci si può sorprendere quindi se una società “piatta” come la nostra
appiattisce (fa franare) anche tutti i soggetti presenti in essa, e in particolare la
loro capacità e il loro vigore soggettivi. Una società ad alta soggettività, che
aveva costruito una sua cinquantennale storia sulla vitalità, sulla grinta, sul
vigore dei soggetti, si ritrova a dover fare i conti proprio con il declino della
soggettività. Che ormai basta sul fronte della resistenza individuale e familiare
alla crisi, ma non basta più quando bisogna giuocare su processi che hanno
radici e motori fuori della realtà italiana; su terreni di competizione che non
offrono riferimenti e appigli saldi alle pulsioni soggettive; su dinamiche dove
sono sempre meno frequenti e meno significative le contingenze che
coinvolgono la soggettualità dei singoli; in una realtà, in sintesi, dove non sono
i soggetti a decidere le cose, ma viceversa.
6. L’appiattimento della soggettività e l’orizzontalità non governata comportano,
a vedere in controluce quel che sta avvenendo, tre fenomeni molto peculiari:
cresce l’indistinto, cioè la indeterminatezza del quadro e dei contorni in cui si
muove la dinamica sociale; cresce la configurazione “indisciplinare” del
sistema, retto ormai da un dispositivo oscillante, aleatorio e senza centro;
cresce la sregolazione delle pulsioni e dei comportamenti individuali.
7. Cresce l’indistinto. Lo si avverte nella dialettica politica, sempre meno chiara e
bipolare; nella comunicazione giornalistica, fatta da paginate eguali e parallele,
salvo mirate spregiudicate operazioni di sevizio; nella comunicazione
televisiva, coatta all’eccesso di stimolazioni ed eventi destinati a non
permanere nella psiche collettiva; nelle nuove forme di tecnologia
comunicazionale, in cui è ormai difficile distinguere messaggi e soggetti e le
relative responsabilità; nel panorama delle responsabilità istituzionali, troppo
frazionate e contraddittorie; nel mercato del lavoro, segnato da una nebbiosa
sovrapposizione di disoccupati, precari, lavoratori sommersi, ecc.; nella stessa
composizione etnica, visto lo scarso peso dei processi di integrazione; per non
parlare di quanto avviene ai confini ambigui e traspiranti fra economia legale
ed economia criminale.
Non siamo, come qualcuno ha detto, una società solo “liquida”, ma ancor più
decisamente indistinta. Così indistinta che i migliori fra noi si impegnano nella
moda di ricorrere quasi compulsivamente al numero e ai dati, alla
quantificazione e alla misurazione, al monitoraggio e alla valutazione; mentre i
peggiori fra noi si adagiano in quel “non c’è nulla da fare” che sembra la
reazione più rancorosa che si possa immaginare, certamente quella più inutile.
Con la “ricchezza” di questo duplice apporto, l’indistinto è destinato a restare a
lungo indistinto.
8. C’è una causa immobile nella crescita e nella permanenza dell’indistinto, ed è
il fatto che nel campo piatto della attuale società non c’è alcun dispositivo di
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
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regolazione, un “disciplinare” (come a livello locale abbiamo tanti disciplinari
dei vini Docg; e come si affanna l’Unione, a livello europeo, per disciplinare
tante piccole cose quotidiane). Nel complesso, la nostra società è senza
regolazione: tutto sembra aleatorio e oscillante. Possiamo quindi parlare a
lungo di potere e di politica, e possiamo anche scendere a più profonde
concezioni di bio-potere e bio-politica; ma non riusciamo più ad individuare un
dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico) che disciplini
comportamenti, atteggiamenti, valori.
Lo stesso inutile spreco che si fa in questi anni del termine “valori” e della
tematica dell’etica (termine e tematica ormai retoricamente spalmati e sprecati
su ogni filosofia terrena o astrale che sia) sta a dimostrare che rispetto alla loro
intima debolezza vince una deriva cinico-pragmatica in cui disciplina e autorità
perdono giorno per giorno non solo l’espressione fenomenica, ma anche il
significato simbolico, quello che più coerentemente è connesso alla psicologia
individuale e collettiva.
9. Non c’è da sorprendersi se in questa situazione si afferma in Italia una diffusa
ed inquietante sregolazione pulsionale.
Le cronache minute della vita italiana ci rinviano infatti tanti comportamenti
puramente pulsionali, senza telos, incardinati in un egoismo autoreferenziale e
narcisistico. Non si tratta solo di comportamenti di limite a livello dei singoli
soggetti (il consumo tossicomaniaco di sostanze, l’ipnosi narcisistica
dell’anoressia, il ritiro libidico del depresso) o dello stesso utilizzo del delitto
per guadagnare potere all’interno della grande criminalità. Si tratta di fenomeni
più diffusi e forse invasivi. Basta guardarsi intorno per constatare la
sregolazione pulsionale esistente negli episodi di violenza familiare; nel
bullismo gratuito e talvolta occasionale in strade e locali pubblici; nel gusto più
apatico che crudele di compiere delitti comuni; nella tendenza ad altrettanto
apatici e facilitati godimenti sessuali; nella ricerca di un eccesso di
stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto; nel ricambio
febbrile degli oggetti da acquisire e godere; nella ricerca spesso demenziale di
esperienze che sfidano la morte (dal cosiddetto balconing allo sfrangersi su un
muro ad alta velocità).
E il tutto, nella somma di tanti comportamenti individuali, diventa una
collettiva compatta onda di pulsioni sregolate, di cui spesso non si può capire
l’intenzione cosciente del singolo (il “cosa ha voluto dire”), forse perché l’atto
compiuto esprime una quasi coatta esclusione della significazione, sotterraneo
fattore di disgregazione di ogni rapporto sociale.
10. Fa parte comunque del mestiere e della responsabilità del ricercatore non
farsi rigettare da questa esclusione collettiva dalla significazione. Bisogna
scavare, capire, interpretare, porsi il problema di cosa vuol dire quel che sta
avvenendo nelle fibre più intime (non nascoste, anzi esposte in pubblico) del
nostro vivere sociale. Superando anche la resistenza intellettuale ad applicarsi a
“ragionare sul vuoto”, visto che c’è il sospetto che la componente dominante di
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
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una società dove vincono l’indistinto, l’indisciplinare, la sregolazione delle
pulsioni sia il vuoto, morale e psichico insieme.
Siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo
storico pieno di interessi e di conflitti sociali, si va sostituendo un ciclo segnato
dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti,
comunque di tutto ciò che può disturbare l’apatica autoreferenzialità delle
pulsioni.
11. In parallelo e in simbiosi, anche la psicologia dei singoli soggetti è
altrettanto segnata dalla coazione al vuoto. Siamo una società in cui gli
individui vengono sempre più lasciati a se stessi, liberi di perseguire ciò che
più aggrada loro senza più il quotidiano controllo di norme di tipo generale o
dettate dalle diverse appartenenze a sistemi intermedi. Essi possono quindi
gloriosamente andare, come negli ultimi decenni, a vitali avventure personali
(si ricordi l’esplosione della piccola impresa), ma possono anche scivolare,
come sta oggi accadendo, verso il dispendio di se stessi: si spende, replicandolo
e consumandolo, il modello di sviluppo faticosamente costruito negli ultimi
decenni; si spende, disperdendola, l’appartenenza a gruppi sociali più o meno
formali; e spesso ci si lascia andare a un dispendio più o meno consapevole
della propria personalità.
Questa segreta doppia autoelisione, in cui si crea ed alimenta il vuoto, crea nei
singoli una diffusa ma personalizzata insicurezza. Possiamo certo, sul piano
generale, convenire su una oggettiva insecuritas come cifra del mondo
moderno; possiamo anche convenire che un po’ di incertezza faccia parte del
giuoco in un processo di globalizzazione che impone una grande flessibilità dei
fattori; ma dobbiamo nel contempo prendere atto che tutto si traduce in una
crescente marea di insicurezza personale, fenomeno non facilmente accettabile
in una società che per generazioni ha perseguito la sicurezza come valore
fondante e ha lavorato per garantirsi lavoro stabile, casa di proprietà,
consistente volume di risparmio.
12. È l’insicurezza il vero virus che opera nella realtà sociale di questi anni. Ed
è su di essa che occorre lavorare, perché certo si tratta di un fenomeno interno
ai singoli individui, ma anche di grande consistenza sociale, visto che le tante
insicurezze personali fanno somma, una somma spiazzante rispetto alla
radicata nostra tradizione di primato della sicurezza.
Forse per questo duplice significato tale novità ha dato luogo ad una riflessione
per ora un po’ ondeggiante e primordiale, ma comunque ambiziosamente
razionale:
- da una parte si pensa che l’insicurezza debba essere affrontata dall’alto, con
interventi volti a rassicurare le paure: più leggi e norme in ogni realtà
ansiogena; più controllo delle contingenze economiche e delle slabbrature
della convivenza collettiva; più ordine in tutto; più obblighi e doveri per
tutti;
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
8
- dall’altra parte si pensa che bisogna partire dal basso, accrescendo le
capacità, la preparazione, la razionalità, la coscienza dei singoli, attraverso
politiche volte a valorizzare il merito come unico strumento di affermazione
della personalità individuale e di crescita della sua classe dirigente.
Leggi securizzanti e promozione del merito, queste le due strade su cui si
ipotizza oggi una risposta all’insicurezza individuale e collettiva. Viene il
dubbio che esse siano troppo “razionali” per poter contrastare un’insicurezza
che ha risvolti importanti di irrazionalità. I fenomeni che occupano le cronache
dei giornali, non esprimendo delle chiare volontà di significato (cosa vogliono
dirci o cosa vogliono essere i ragazzi che fanno balconing o che uccidono
familiari stretti o casuali passanti?), ci impongono di non affrontarli troppo
razionalmente, pena il restare nell’inerte stupore e sgomento che essi inducono
in tutti noi.
13. Se la razionalità delle norme e delle coscienze non basta più, occorre allora
scendere ancor più a fondo nella personalità dei singoli e nella soggettività
collettiva: bisogna avere il coraggio di scendere a verificare se e come funziona
l’inconscio individuale. Non l’inconscio come luogo della dimensione
irrazionale di ognuno di noi, ma come luogo della modulazione mentale della
propria potenza e dei propri comportamenti.
È infatti nell’inconscio che si confrontano e si articolano i due grandi fattori
della vita: la legge e il desiderio. È il desiderio che esprime la volontà e il
bisogno di superare un vuoto vissuto come “mancanza ad essere” perseguendo
e acquisendo oggetti e relazioni; ed è la legge (l’autorità esterna o
interiorizzata) che, contrastando o vincolando il desiderio, determina
l’aggiustamento ad esso o la sua nevrotica rinuncia.
a) Sembra però avvenire ogni giorno di più che il desiderio diventi esangue,
senza forza, indebolito da una realtà socioeconomica:
- che da un lato ha appagato la maggior parte delle psicologie individuali
attraverso una lunga cavalcata di soddisfazione dei desideri covati per
decenni se non per secoli (la casa e il suo arredo, la mobilità territoriale
con auto e aereo, la frequenza della formazione e il titolo di studio, la
vacanza e il tempo libero; ecc.);
- e che dall’altro è basata sul primato dell’offerta che garantisce il
godimento di oggetti e di relazioni mai desiderati, o almeno non
abbastanza desiderati (bambini obbligati a godere giocattoli mai chiesti;
adulti coatti, più che desideranti, al sesto tipo di telefono cellulare,
ecc.).
Forse aveva ragione chi profetizzava che il capitalismo avrebbe trionfato
con la strategia del rinforzo continuato dell’offerta, strumento invincibile
nel non dare spazio ai desideri. Così, all’inconscio manca oggi la materia
prima su cui lavorare, cioè il desiderio. Questo è troppo depotenziato per
poter creare quel drammatico scontro con la legge che è necessario per far
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
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funzionare l’alchimia della modulazione dei propri orientamenti valoriali e
comportamentali.
b) Del resto, anche l’altro fattore dell’alchimia mentale non è in migliori
condizioni di salute. Il trionfo dell’orizzontalità e il processo di
desublimazione rendono labili i riferimenti individuali alla potenza verticale
e irrevocabile della legge, del padre, del dettato religioso, della stessa
coscienza (anzi questa spesso diventa il grimaldello e/o l’alibi per
scorciatoie banalmente autoreferenziali rispetto ai dispositivi della norma).
Si vive senza norma, quasi senza individuabili confini della normalità, per
cui tutto nella mente dei singoli è aleatorio vagabondaggio, non capace di
riferirsi ad un solido basamento.
14. Una legge sempre meno forte si combina con un desiderio sempre meno
vigoroso, con un pericoloso declino del giuoco di modulazione esercitato
dall’inconscio in ciascuno di noi. Ma non è solo un problema limitato alla sfera
individuale, perché anche il sistema sociale soffre della stessa perdita.
Da un lato, infatti, l’evaporazione della legge comporta giorno dopo giorno la
mancanza di certezze anche sociali e non solo valoriali: le norme si
confondono e si accavallano; il potere si frammenta e si dissemina; la
decisionalità si sfarina; vince l’accavallarsi delle contingenze e del loro
fronteggiamento; ed anche quello che sembra il potere di ultima istanza (la
gestione dei flussi finanziari) non riesce a dare senso alla politica come
regolazione di sistema.
Dall’altro lato, la caduta dei desideri porta al primato del godimento e
dell’edonismo di massa, alla serialità dei comportamenti, alla rassegnazione
per la loro eterodirezione, al presentismo euforico, al rifiuto del tempo lungo e
dell’accumulazione, all’eccessivo peso del mondo esterno rispetto alla
coltivazione dei mondi interni. L’individualismo atomizzato cresce e si
corrompe in un pericoloso vuoto sociale.
15. La tentazione più immediata a questo parallelo declino della legge e del
desiderio è quella di operare sulla prima, nella convinzione che in una società a
crescente secolarizzazione e desublimazione solo un ritorno alla roccia dei
principi (statuali, civili, morali, religiosi) possa garantire quelle certezze di cui
ha bisogno la nostra insicurezza individuale e collettiva. Ma, al di là delle
ambizioni e dei pericoli delle vocazioni fondamentaliste, è da notare che non
esistono in Italia quelle sedi di auctoritas che potrebbero o dovrebbero ridare
forza alla legge, vista l’inermità istituzionale in cui viviamo anche in realtà a
forte componente carismatica (ne è l’esempio più evidente la Chiesa).
16. Più utile appare il richiamo ad un rilancio del desiderio, individuale e
collettivo. “Torniamo a desiderare” può apparire una indebita incitazione
profetica, ma è piuttosto la riproposizione di una virtù civile, un ritornante
raccogliersi sulla dimensione più intima dei singoli e delle comunità.
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
10
Da tale dimensione si può partire, sapendo che solo il desiderio “impone
l’altro” (oggetto, relazione, condizione che sia) facendoci “disubriacare” dalla
costante condanna alla soggettività autoreferenziale; solo il desiderio non ci
appiattisce al deserto tutto orizzontale su cui siamo via via franati; solo il
desiderio ci fa alzare gli occhi da quelle reti orizzontali che ci impigliano
nell’esistente e in una inerte e non significativa reciprocità; solo il desiderio
fornisce telos progressivo (non conservativo e distruttivo) alle pulsioni; solo il
desiderio può darci lo slancio per vincere il nichilismo dell’indifferenza
generalizzata; solo il desiderio può dare all’inconscio (individuale e collettivo)
l’orgoglio di quel senso della complessità che può superare l’ambiziosa
univocità della semplificazione; solo il desiderio esprime quella volontà di
significazione (di voler dire e di voler essere) che oggi manca in tanti
comportamenti.
Senza desiderio non c’è inconscio, non si attiva ed alimenta quel giuoco di
confronto con la legge che può dare anche divieti, rimozioni, nevrosi, ma che è
essenziale per modulare lo svolgimento di una vita.
Se, come dicevano i greci, virtuoso è colui che sa modulare la potenza del
proprio desiderio (senza vietarlo del tutto e senza del tutto accondiscendere ad
esso), allora non è paradossale dire che tornare a desiderare è la virtù civile
necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita.
Senza aver paura dei conflitti individuali, collettivi e istituzionali che un
rinnovato vigore del desiderio può comportare: meglio il conflitto, oggi, che
l’appiattimento.
17. Questa enfasi sul tornare a desiderare può apparire una fuga in avanti
rispetto all’andamento piatto della nostra cultura collettiva, rispetto ai duri
problemi attuali della nostra società e alla conclamata urgenza di adeguate
politiche (alcuni parlano nuovamente di piani pluriennali) per rilanciare lo
sviluppo. Ma, come si è scelto quest’anno un avvio non tradizionale per questo
Rapporto, sembra anche possibile chiuderlo in modo meno rituale degli anni in
cui la sintesi interpretativa sfociava in una totale fiducia nelle lunghe derive, su
cui spontaneamente evolve la nostra società; e/o chiamava in causa una
responsabilità delle istituzioni e della loro classe dirigente. Ci sono infatti
quest’anno buone ragioni per operare una scelta più tiepida su questa duplice
tastiera.
a) Per quanto riguarda le lunghe derive, si è già detto che la loro permanenza
nel tempo permette il fronteggiamento della crisi, ma non la piena ripresa
del sistema. E occorre dire che non sono all’orizzonte dinamiche partecipate
e vigorose, visto che i tre processi che più sono in espansione, cioè:
- la crescita di comportamenti sostanzialmente “apolidi”, legati al
primato della competitività internazionale, sia a livello dei mediograndi
imprenditori, sia a livello delle migliaia di giovani orientati a
studiare e lavorare all’estero;
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
11
- la crescita di nuovi reticoli di rappresentanza, sia nel mondo delle
imprese, specie quelle diffuse, sia nelle istituzioni locali (con un lento
formarsi di un tessuto federalista);
- la crescita di una propensione comunitaria, con la tendenza a vivere in
luoghi a misura d’uomo (borghi, paesi o piccole città), in condizioni di
alta qualità della vita e in ricchezza relazionale con la natura e le
persone;
non presentano, a ben vedere, quella partecipata forza sociale necessaria per
creare una nuova onda larga di trasformazione, per fare “deriva”, per
avviare una nuova fase storica.
b) Ancora più improbabile è che si possa far conto su quell’impulso
sociopolitico, progettuale e programmatico, tante volte in passato chiamato
in causa. È difficile pensare infatti di far conto su élite di aristocratici
bennati, visto che non ne circolano molti in questo periodo; su leadership
partitiche volte a perseguire una propria linea egemonica (quelle che ci sono
sembrano ad altro interessate); su un rinnovato impegno degli apparati
pubblici, oggi più portati alla loro disarticolazione che allo sforzo di
elaborare adeguati dispositivi di governo. E purtroppo nessuno di tali
soggetti può trovare alimento nel livello del dibattito sociopolitico: la
tematica rigore-ripresa è ferma alle parole; gli input esterni sono flebili,
come è flebile tutta la riflessione sullo sviluppo europeo (tranne che per
l’obbligo del rigore); e i tanti richiami ai temi “all’ordine del giorno” (la
scuola, l’occupazione, le infrastrutture, la legalità, il Mezzogiorno, ecc.)
rappresentano un insieme di enunciati seriali che ancora non spingono i più
impazienti verso l’insurrezione del pensiero, ma certo non supportano
alcuna speranza di nuovi impulsi. Il destino “piatto” di tale dibattito sembra
ad oggi irrevocabile.
18. La caratura negativa del giudizio sulla flebilità delle derive spontanee e
delle istanze politiche non va comunque attribuita solo all’ingenerosità
dell’osservatore esterno, ma anche e specialmente alla potenza egemonica di
quella strategia della continua offerta che qualcuno ha indicato come la
“strategia vincente del tardo capitalismo” e a cui noi stessi quest’anno
dedichiamo molte delle pagine successive.
Tutto sembra destinato ad apparire debole di fronte ad essa: non solo anticipa e
quindi disinnesca i desideri; non solo rende residuale ogni cultura desiderante
(del resto malamente consumatasi negli ultimi decenni); non solo occupa tutti
gli spazi di potenziale innovazione dei comportamenti; non solo permette la
compresenza di opzioni diversissime, dalla sobrietà più o meno obbligata al
lusso; ma di fatto mette addirittura ordine e cadenza alla vita quotidiana
iniettando un desiderio sommerso ma diffuso di mantenimento dell’esistente. E
non sorprende che sotto una schiuma di litigiosità (tutti sembrano arrabbiati
con tutti) il livello di conflittualità non aumenta: l’egemonia dell’offerta crea di
fatto stabilità sociale.
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
12
Dovremo con questo prender atto che la complessità italiana è essenzialmente
complessità culturale. La crisi che stiamo attraversando ha bisogno quindi
principalmente di uno scavo e di messaggi che facciano autocoscienza di massa
(di massa e non di piazza, come pensano affabulatori in cerca di autostima).
In una società che ha sempre fatto paradigma di se stessa (senza uniformarsi ad
impulsi e dispositivi dati in precedenza) tale autocoscienza di massa può
nascere solo dalla consapevolezza che la strategia dell’offerta continuata giova
al tardo capitalismo, ma non alla gente comune; che occorre contrastare tale
strategia, sottraendosi il più possibile ad essa; che occorre ricominciare ad
esprimere domande autonome; che occorre, in parole già dette, “tornare a
desiderare”; che occorre perciò sviluppare una mente immaginale, capace di
innovare pensieri e richieste. E forse quel che dobbiamo desiderare è questo
ritrovare una mente in opera, un riarmo mentale più che morale.
La società italiana al 2010
(pp. 1 – 102 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
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1. La pericolosa china verso l’appiattimento
Il disinvestimento individuale dal lavoro
Poco fiduciosi rispetto alla possibilità di trovare un’occupazione, ma forse anche
poco disponibili a trovarne una a qualsiasi condizione, i giovani, che più hanno
avvertito sulla propria pelle gli effetti della crisi (nei primi due trimestri del 2010
si è registrato un calo degli occupati tra 15 e 34 anni del 5,9%, a fronte di un calo
medio dello 0,9%), sembrano avere, almeno per una buona parte, definitivamente
archiviato la “pratica lavoro”. Sono più di 2.242.000 gli italiani tra 15 e 34 anni
che non sono impegnati in un’attività di studio, non lavorano, non lo cercano e
soprattutto non sembrano essere interessati a trovarlo. Un universo ampio, pari al
16,3% del totale, il cui peso appare ancora più consistente nella fascia d’età tra i
25 e i 34 anni (19,2%).
In prevalenza donne, in possesso di titoli di studio molto bassi (il 51,5% ha al
massimo la licenza media), ben il 60,3% risiede al Sud del Paese. Se si escludono
quanti, soprattutto donne, stanno a casa per prendersi cura dei figli (il 20,6% del
totale), la parte restante spiega la propria scelta di non lavoro né studio
trincerandosi dietro un mix perverso di sfiducia e inerzia: il 20,9% non cerca
lavoro perché sa che non lo troverà, il 13,1% perché sta aspettando delle risposte,
l’11% perché frequenta temporaneamente qualche corso, il 5,2% perché non gli
interessa e non ne ha bisogno, il 10,9% chiama in causa altri motivi, non meglio
specificati, ma estranei comunque a obblighi familiari (come, ad esempio,
prendersi cura di genitori o di altri parenti) o legati all’istruzione (tab. 1).
Insomma, quale che sia la causa, una parte significativa delle risorse produttive
del sistema sembra chiamarsi fuori dal gioco, anche se non definitivamente,
derubricando quella che un tempo rappresentava una fase quasi obbligata di
passaggio all’età matura, per molti versi un dovere sociale vero e proprio.
Ma anche chi sceglie di continuare a giocare la propria partita, di volere un lavoro,
perché magari non ha una famiglia alle spalle in grado di mantenerlo o non ha
rinunciato alla speranza di trovarlo, non sembra disposto a volerlo a qualsiasi
condizione. È indicativo che, interpellati a settembre, più della metà degli italiani
(il 55,5%) pensa che i giovani non trovano lavoro perché non vogliono accettare
occupazioni faticose e di poco prestigio: una valutazione che potrebbe apparire un
po’ ingenerosa e forse stereotipata, se non fosse che ad esserne più convinti sono
proprio i più giovani, tra i quali la percentuale sale al 57,8% (tab. 2).
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Se l’atteggiamento verso il lavoro di chi è esterno al sistema sembra segnalare da
più parti un sentiment di disaffezione, anche tra chi ha un’occupazione non si può
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trascurare come facciano fatica ad entrare innovazioni di carattere organizzativo e
retributivo, che tanto impulso potrebbero dare alla ripresa e alla crescita.
L’Italia è il Paese con il più basso ricorso a orari flessibili nell’ambito
dell’organizzazione produttiva: solo l’11% delle aziende con più di 10 addetti
utilizza turni di notte, solo il 14% fa ricorso al lavoro di domenica. Sempre al di
sotto della media, ma più vicino agli altri Paesi, è il lavoro al sabato, praticato dal
38% delle aziende, contro il 40% della media europea. Al tempo stesso siamo il
Paese dove è più bassa la percentuale di imprese che adottano modelli di
partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda (lo fa solo il 3% contro una
media europea del 14%) (tab. 3).
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Le conseguenze della
despecializzazione imprenditoriale
L’Italia resta il quinto Paese più industrializzato del mondo, con un contributo alla
produzione manifatturiera mondiale del 3,9%. Se il distacco con la Germania
(quarta in classifica) in termini di contributo allo sviluppo industriale permane da
tempo, la distanza con gli Stati Uniti (secondi in classifica, con il 15,1% della
produzione manifatturiera globale) e con il Giappone (terza potenza industriale) si
è accorciata, mentre continuiamo ad essere sopra la Francia e il Regno Unito
(rispettivamente settima e decima potenza mondiale in termini di contributo alla
produzione manifatturiera globale). Se si guarda alla produzione manifatturiera
pro-capite, siamo al secondo posto a livello mondiale, dopo la Germania. Sebbene
la quota italiana sui mercati esteri si stia progressivamente assottigliando, siamo
tra i primi dieci esportatori e continuiamo ad avere un ruolo da protagonisti.
Tuttavia, nei comparti produttivi per i quali l’Italia presenta gli indici di
specializzazione del commercio estero più elevati si sono manifestate tra il 2000 e
il 2009 flessioni rilevanti. È il caso dei materiali per l’edilizia, dove l’indice di
specializzazione ha registrato una flessione di oltre 3 punti; del settore degli
elettrodomestici, del mobile-arredo, del comparto orafo e della gioielleria, con
diminuzioni almeno di un punto tra l’inizio e la fine di questo decennio.
Il rischio di despecializzazione esiste. La quota dell’export italiano sul mercato
mondiale è passata negli ultimi nove anni dal 3,8% al 3,5%. È migliorato il nostro
posizionamento attraverso prodotti come gli articoli di abbigliamento, i
macchinari per uso industriale, il materiale rotabile, le pitture e vernici, i prodotti
in legno, la carta e i prodotti alimentari, ma abbiamo perso quote nei comparti a
maggiore tasso di specializzazione (fig. 4).
Tra il 2000 e il 2009, il tasso di crescita dell’Italia è stato dell’1,4%, il più basso
rispetto a qualsiasi Paese industrializzato. Certo, di mezzo c’è stata una crisi molto
accentuata, manifestatasi a partire dal 2008 e che ancora oggi stenta a spegnersi,
ma il dato nazionale è molto lontano dai tassi di crescita in termini reali del 10,9%
in Francia, del 13,4% nel Regno Unito, del 14% negli Stati Uniti, nonché dai
valori più contenuti di Germania e Giappone.
E non possiamo neanche sostenere che sul nostro sistema produttivo agiscono
fenomeni di decelerazione legati al declino demografico o all’immobilismo del
mercato del lavoro. Nel decennio della globalizzazione, a partire dal 2000, in
Italia la popolazione residente è cresciuta del 5,8%, gli occupati dell’8,3% e il Pil
dell’1,4% in termini reali; in Germania le variazioni sono: residenti -0,4%,
occupati +2,9%, Pil +5,2%; in Francia: popolazione +6,2%, occupati +5,0%, Pil
+10,9%; per il Regno Unito: residenti +4,9%, occupati +5,4%, Pil +13,4%
(fig. 5).
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L’uso stagnante del risparmio familiare
Mattone, liquidità, polizze: sono questi i pilastri ai quali, nella crisi, le famiglie si
sono ancorate per resistere. Ma più di recente sono emersi i segnali di approcci
meno cautelativi nella collocazione del risparmio (tav. 1).
Nel primo trimestre del 2010, rispetto alla stesso periodo del 2008, i mutui erogati
sono aumentati in termini reali del 10,1% salendo a un valore di oltre 252 miliardi
di euro; rispetto al primo trimestre del 2006, l’incremento reale è stato di oltre il
25%. Nella crisi, le famiglie si sono trincerate sul potere rassicurante del mattone
e per farlo hanno ripreso anche a indebitarsi.
Nei conti finanziari, nel biennio è aumentato il ricorso alla liquidità, che siano i
biglietti e i depositi a vista (+4,6% in termini reali), o gli altri depositi (+10,3%),
nonché le riserve tecniche di assicurazione (+8,1%). In generale, le attività
finanziarie sono aumentate in termini reali del 2,3% nel primo trimestre del 2010
rispetto al primo trimestre del 2008.
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Nell’ultimo anno (primo trimestre 2009-primo trimestre 2010) emerge invece un
certo rallentamento del ricorso alla liquidità e un ritorno a un profilo meno
marcatamente cautelativo nella collocazione del risparmio familiare, con un
aumento del 29,3% delle quote di fondi comuni d’investimento e del 12,5% delle
azioni e partecipazioni (ci sono 680 miliardi di euro di titoli a custodia delle
famiglie depositati presso le banche, pari al 45% del totale).
Nella crisi, quindi, ha tenuto la variabile madre dell’economia familiare, quella
che nasce dalla propensione degli italiani a indebitarsi virtuosamente investendo
nel mattone. Ed è come se le famiglie fiutassero che quella del mattone continua
ad essere, per il nostro Paese, l’unica vera direttrice per costruire solidi pilastri
patrimoniali.
Emergono, in alcuni casi, segnali di difficoltà (fig. 6): tra le famiglie che
fronteggiano pagamenti rateali, mutui o prestiti di vario tipo, il 7,8% dichiara di
non essere riuscito a rispettare le scadenze previste, il 13,4% lo ha fatto con molte
difficoltà, un ulteriore 38,5% con un po’ di difficoltà; e a soffrire di più sono state
le famiglie monogenitoriali e le coppie con figli.
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2. La proliferazione della logica d’offerta
L’artificiale promozione dei consumi
La moltiplicazione degli strumenti di incentivazione della domanda e la
progressiva spalmatura delle offerte promozionali lungo tutto l’arco dell’anno
stanno modificando le decisioni di spesa dei consumatori, inducendo spesso
comportamenti che oscillano fra il rifiuto pregiudiziale nei confronti di qualsiasi
iniziativa di sostegno e l’ansia di cogliere al volo occasioni che sulla carta e nel
messaggio dell’offerta appaiono irripetibili e vantaggiosissime.
Accanto alla filiera pubblica del sostegno alla domanda, si può aggiungere ciò che
sul versante privato è stato fatto per intercettare la domanda dei consumatori. Un
profilo per certi aspetti inedito dell’offerta, che tenta in tutti i modi di saldare
l’eccesso di capacità produttiva con l’ampia disponibilità di liquidità che circola
soprattutto fra le famiglie, orfane finora di rendimenti finanziari vantaggiosi.
Ma una conferma dell’alleanza fra il settore finanziario e quello distributivo si può
ottenere dall’analisi delle destinazioni finali dei prestiti richiesti dalle famiglie in
questi anni. Se nel complesso la crescita del credito al consumo e dei prestiti in
generale ha segnato, nonostante la crisi, una dinamica espansiva (+5,6% nel 2008
e +3,3% nel 2009, per quanto riguarda i prestiti in generale; +5,6% nel 2008 e
+4,7% nel 2009, per quanto riguarda il credito al consumo) (tab. 11), è nelle
categorie di prestiti non direttamente riconducibili all’acquisto di abitazioni (come
le aperture di credito in conto corrente) che si registrano i maggiori incrementi: se
nel 2008 l’incremento sui dodici mesi precedenti era stato pari all’8,1%, a marzo
2010 tale incremento ha raggiunto il 10,1%.
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Ciò che sta comunque caratterizzando la fase attuale dei consumi è la costante
smaterializzazione delle transazioni e dei meccanismi di pagamento, che consente
una facilitazione notevole nella funzione di consumo delle persone. La diffusione
di strumenti di pagamento elettronici e remoti riguarda oltre 4 miliardi di
operazioni e, anche in costanza di una riduzione generale della domanda, si
registra nello stesso tempo un aumento dell’uso di addebiti preautorizzati (con un
aumento fra il 2008 e il 2009 del 3,9% del numero di operazioni, a cui
corrisponde un aumento del 2,4% del valore monetario delle transazioni) e dei
bonifici bancari automatizzati (+1,3%). In sostanza, le operazioni effettuate con
strumenti diversi dal contante e automatizzate sono aumentate fra i due anni del
2% (tav. 3).
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Il valore delle operazioni con carte di pagamento ha raggiunto nel 2009 la cifra
complessiva di 252 miliardi di euro: hanno contribuito soprattutto le carte di
credito (+9% di operazioni rispetto al 2008), mentre l’incremento del numero
delle operazioni con carte prepagate è stato del 23,6%, che in termini di valore ha
significato un aumento del 13,4%.
Altro vettore di smaterializzazione del consumo, o di fasi di esso, è poi dato dallo
sviluppo di Internet e, di conseguenza, dalla diffusione del commercio on line.
Nel 2009 in Italia gli acquisti sul web hanno riguardato circa 5,6 milioni di
persone, quasi un quarto di chi ha utilizzato Internet nell’arco dei dodici mesi; gli
acquisti si sono rivolti prevalentemente verso i biglietti di viaggio, le vacanze, i
libri, i giornali e le riviste, fino all’abbigliamento e ai prodotti elettronici.
La moltiplicazione delle spese indesiderate
La spesa media mensile delle famiglie italiane si è attestata nel 2009 su 2.442
euro. Di questi, 1.981 euro sono destinati all’acquisto di beni e servizi non
alimentari. Rispetto al dato del 2007, la spesa media complessiva si è contratta di
38 euro al mese (5 euro dei quali riconducibili a una diminuzione della spesa
alimentare).
I consumi per così dire “obbligati” o “irrinunciabili” delle famiglie si sono
attestati su un livello mai raggiunto in precedenza. Erano il 18,9% nel 1970, il
24,9% nel 1990, il 27,7% nel 2000, mentre oggi vanno oltre il 30% del totale della
spesa familiare.
A ben guardare, si tratta di consumi riconducibili in prevalenza a tre grandi
categorie di spesa:
- quella in qualche modo legata alla dimensione dell’abitare (affitti, mutui casa,
riscaldamento, forniture energetiche e idriche, smaltimento rifiuti, ecc.);
- quella legata al trasporto privato (polizze assicurative auto e moto, bolli,
manutenzione veicoli, acquisto carburante, ecc.);
- quella legata alla sanità e alla protezione sociale.
Sono ambiti nei quali le famiglie risultano maggiormente esposte, sia per ragioni
socio-demografiche (si pensi all’invecchiamento della popolazione e al maggiore
ricorso alle prestazioni mediche), sia per ragioni riconducibili al fatto che le
attuali dinamiche concorrenziali in alcuni settori di servizio sono ben lontane
dallo svolgere un ruolo di effettiva calmierazione dei prezzi.
Ma il senso di “imprigionamento” di cui soffrono oggi le famiglie va
probabilmente molto al di là di questi dati e trova ragion d’essere nella
permanenza di una coazione a sostenere spese per forme di tassazione considerate
inique, o per l’acquisto di beni e servizi difficilmente evitabili, sicuramente poco
graditi e raramente frutto di una libera scelta.
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Si parla molto, nel nostro Paese, dell’elevato cuneo fiscale che, calcolato intorno
al 46,5%, colloca l’Italia al sesto posto tra i Paesi avanzati. Un cuneo che cresce
fino al 49% se si considerano i pagamenti obbligatori non fiscali tra cui spicca il
peso del Tfr. Si tratta, a ben vedere, di un cuneo che si applica sulla produzione
del reddito, ma esiste evidentemente un cuneo che colpisce la famiglia in quanto
soggetto-consumatore. Una serie di spese imposte, molto spesso senza alcuna
contropartita, possono mettere in crisi i bilanci delle famiglie. Fra queste, le spese
relative agli aumenti tariffari, che per il prossimo anno vengono calcolati nel
complesso in poco meno di 1.000 euro a famiglia. Ma non programmabili sono
anche spese che si determinano a fronte di provvedimenti normativi che
modificano l’accesso ad alcuni beni pubblici, come è il caso delle fasce blu per i
parcheggi. Ci sono poi le spese per le multe (spesso riconducibili alla cattiva
gestione del traffico e alla scarsa offerta di parcheggi), il cui gettito sostiene le
esangui casse dei Comuni. In ultimo, ci sono spese periodiche di cui difficilmente
si tiene conto se non quando ci si trova nella concreta necessità di farvi fronte (le
consulenze per pagare le imposte, le revisioni su auto, moto, caldaie, ecc.) e che
difficilmente vengono previste nei bilanci familiari. La stima complessiva del
Censis è di un valore di 2.289 euro all’anno per famiglia (tab. 13).
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Gli eccessi nell’urbanizzazione del territorio
Anche se da tre anni il mercato immobiliare è fermo, il boom del periodo
precedente (circa 800.000 alloggi scambiati ogni anno) ha alimentato una nuova
ondata di costruzioni (circa 300.000 abitazioni nuove costruite all’anno). La
mancanza di criteri forti e condivisi tradotti in efficaci principi di regolazione ha
fatto sì che gli spontanei meccanismi del mercato determinassero, quasi
indisturbati, i caratteri di tale proliferazione edilizia. Ne deriva che, pur a fronte di
una notevole retorica sulla centralità dei principi di sostenibilità sociale e
ambientale, il territorio consumato per le costruzioni si è molto ampliato.
La disponibilità di territorio agricolo si sta erodendo pericolosamente (e certo non
è più riconvertibile una volta sigillato e impermeabilizzato dagli usi urbani),
mentre le diseconomie della dispersione sono rilevanti, come hanno capito da
tempo Paesi come la Germania, dove si sono stabiliti a livello nazionale limiti
rigorosi all’espansione. In Italia, in soli sei anni (dal 2000 al 2006) la quota di
territorio nazionale impermeabilizzato è aumentata di ben un punto percentuale,
passando dal 5,3% al 6,3%.
A strutturare la morfologia del nuovo paesaggio metropolitano è stata senza
dubbio anche l’espansione della grande distribuzione commerciale: basti pensare
che tra il 2005 e il 2009 le superfici degli ipermercati sono aumentate del 28%,
quelle dei grandi centri di vendita specializzati (elettronica, arredamento, sport,
bricolage) del 34,5%, il numero dei multiplex (i cinema con almeno 8 schermi) è
salito del 21,5% (tab. 14).
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Che sia percepito come un fattore rassicurante o inquietante, di fatto gli
ingredienti che formano oggi il paesaggio contemporaneo delle megacities sono,
nella loro spinta standardizzazione, ovunque i medesimi: i totem luminosi delle
catene commerciali, i grandi contenitori del consumo e dell’intrattenimento di
massa con i loro sterminati parcheggi, le lottizzazioni residenziali che li
accompagnano, le rotonde che disegnano e regolano gli incroci del tessuto viario.
3. L’intreccio (virtuoso o pericoloso)
dei sottosistemi
L’irrobustimento delle reti fra imprese
Nel 2010 sono state varate molte misure che incentivano la costituzione di forme
di collaborazione finalizzate alla definizione di strategie commerciali e
distributive, al trasferimento tecnologico dai centri di ricerca alle imprese, a
sinergie per la presenza su nuovi mercati all’estero. La novità rispetto alle
tradizionali attività di sostegno è quella di veicolare gli incentivi prevalentemente
alle imprese che sottoscrivano un contratto di rete. La Puglia ha varato una misura
da 10 milioni di euro per la diffusione di tecnologie Ict, la Lombardia ha
disponibilità finanziarie per 8,3 milioni di euro per il sostegno alle filiere
produttive, la Toscana ha varato una misura finalizzata a grandi progetti di
trasferimento tecnologico o di innovazione per 16 milioni di euro. In Emilia
Romagna nel mese di giugno 2010 sono stati messi a disposizione finanziamenti
per 12 milioni di euro e sono già in valutazione 251 progetti con più di 1.000
imprese coinvolte.
È possibile schematizzare individuando quattro ambiti essenziali in cui le reti
coinvolgono gli operatori economici:
- le reti della produzione, che si sostanziano nell’esperienza dei distretti
industriali, dei metadistretti, dei cluster d’impresa, dei localismi produttivi e
in cui operano ormai anche i contratti di rete;
- le reti della promozione e vendita, ovvero sistemi organizzati in forme
sempre più complesse attraverso cui le imprese italiane cercano di penetrare
soprattutto i mercati esteri, tramite i consorzi per l’export, o di distribuire il
prodotto secondo metodi più efficaci e più efficienti, attraverso il franchising
o catene logistiche e distributive complesse;
- le reti assicurative, finanziarie e mutualistiche, finalizzate ad assicurare o
sostenere le attività delle imprese, come nel caso delle strutture di
assicurazione del credito all’estero, come fa ad esempio Sace in un’ottica di
rete, o il sistema dei Confidi, che opera attraverso una rete di oltre 500
strutture presenti su tutto il territorio nazionale e con una capacità di
penetrazione, in termini di imprese sul totale del tessuto produttivo, di oltre il
23%;
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- le reti dell’innovazione e del trasferimento tecnologico, da sempre anello
debole di un sistema come quello italiano poco vocato alla sperimentazione di
nuove tecnologie nei processi produttivi, ma che a piccoli passi tenta oggi di
riposizionarsi attraverso un’offerta più mirata di consulenza alle imprese da
parte di Parchi scientifici e tecnologici e la maggiore apertura alle aziende dei
dipartimenti universitari operanti nel campo tecnico-scientifico, sull’impronta
che da anni caratterizza i centri di ricerca del Nord Europa. Attualmente in
Italia si conta una rete di 56 sportelli universitari operanti nel campo della
consulenza alle imprese, con 1.900 brevetti depositati;
- infine, nella logica aggregativa va anche considerato il rinnovamento nelle
reti di rappresentanza, che ha visto la realizzazione di un nuovo progetto
(Rete Imprese Italia) che, a seguito del “Patto del Capranica”, ha messo
insieme la rappresentanza della piccola e media impresa.
Da tempo si discute sull’attualità dei distretti industriali, anzi di recente si è
diffusa l’idea che i contratti di rete rappresentino una forma sostitutiva del
distretto classico. In realtà, queste due forme di organizzazione delle relazioni tra
imprese appaiono più complementari che sostitutive l’una dell’altra. L’intensità
delle relazioni in queste aree distrettuali resta molto forte. Secondo una
rilevazione effettuata dal Censis con imprenditori di distretti manifatturieri, il
dialogo tra tessuto produttivo, enti di formazione, strutture di ricerca, Confidi,
centri servizi è sempre molto intenso. Il 57% degli intervistati opera e si rivolge a
laboratori di test e prove presenti all’interno dell’area distrettuale, il 53% dispone
di strutture di formazione, quasi il 50% dispone di un centro servizi per il
distretto, il 43% dispone di una struttura di coordinamento per le attività di
esportazione delle diverse imprese (fig. 9).
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I continui aggiustamenti del welfare mix
Da sempre le famiglie si sono caratterizzate come un pilastro strategico del
welfare italiano, caricandosi di compiti assistenziali, particolarmente gravosi per
le situazioni più problematiche di non autosufficienza e disabilità, di fatto
sopperendo ai vuoti macroscopici del sistema pubblico.
Negli studi più recenti del Censis sui costi delle patologie che determinano ridotti
livelli di autosufficienza è stato evidenziato il peso consistente del contributo
economico familiare: il costo diretto a carico delle famiglie che assistono un
malato di Alzheimer è pari a 10.627 euro all’anno (a cui possono essere sommati i
circa 46.000 euro di costi indiretti, per un costo medio annuo complessivo per
paziente di 56.646 euro), si sale a un valore di 11.250 euro all’anno per costi
diretti e indiretti per ogni paziente affetto da artrite reumatoide, fino ai circa
15.000 euro all’anno di costi sociali per i pazienti affetti da insufficienza renale
cronica in dialisi.
Si tratta di carenze nell’offerta sanitaria e socio-assistenziale tanto più gravi
quanto più si considera il significativo numero di famiglie coinvolte, ad esempio,
in una situazione particolarmente grave come quella della disabilità. La stima del
Censis fa riferimento a 4,1 milioni di persone, pari al 6,7% della popolazione,
definite disabili a partire da una percezione degli intervistati.
La presa in carico di queste situazioni riguarda in modo cospicuo ed estremamente
coinvolgente ancora una volta proprio le famiglie nell’accezione più ristretta (i
caregiver sono madri, coniugi e figli), mentre il ricorso alla badante come
soggetto principale dell’assistenza riguarda il 10,7% dei casi (tab. 15).
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Negli anni della crisi le famiglie, da sempre abituate a far fronte alle carenze di
offerta, ai costi di compartecipazione spesso non indifferenti e alle difficoltà di
accesso al sistema pubblico di welfare, hanno affinato le strategie di autotutela
puntando sia su più ampie e differenziate strategie di tipo individuale, sia su forme
più organizzate di autogestione.
L’andamento della spesa sanitaria privata segnala una pur lieve riduzione della
sua incidenza sulla spesa totale (tab. 16) e già lo scorso anno i comportamenti
sanitari delle famiglie hanno fatto registrare un ritorno alla sponda pubblica, come
segnalato dal 35,1% di famiglie che hanno dichiarato di essersi rassegnate alla
lunghezza delle liste d’attesa senza poter optare per la sanità privata: quota che
raggiunge il 51,9% per i livelli economici bassi e il 42,8% per i ceti medio-bassi.
Ciò che è importante segnalare è una sorta di “affinamento” di strategia, una
modalità di azione in cui le forme di autotutela non si risolvono necessariamente
in una exit verso il settore privato, ma si strutturano in forme di arrangiamento più
organizzato in grado di contemperare le maggiori difficoltà economiche delle
famiglie.
Il volontariato, non solo svolge una fondamentale opera di raccordo nelle
comunità, ma continua anche a garantire una funzione strategica di provider di
servizi proprio in tempo di crisi. Secondo una recente indagine del Censis, circa 1
italiano su 4 (il 26,2%) svolge una qualche forma di volontariato, anche
informale, e si tratta soprattutto di persone adulte (il 31,1% ha tra i 30 e i 44 anni)
(tab. 18). Sintomatico di questa tendenza è anche il dato relativo al settore nel
quale gli italiani svolgono più spesso attività di volontariato: in un terzo dei casi
(33%) si tratta della sanità (tab. 20).
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La famiglia protagonista forzata
delle vicende scolastiche
Il disincanto delle famiglie non è l’unica reazione sociale in campo educativo. Per
le nuove generazioni, in particolare, mentre sembra restringersi l’offerta pubblica
di sistema, assistiamo a una tensione verso una crescente investimento
immateriale, funzionale ai futuri percorsi di vita e lavorativi.
A livello di scuola dell’obbligo è significativo che nello scorso anno scolastico
ben 4.342 bambini e ragazzi abbiano sostenuto gli esami di idoneità nella scuola
primaria o secondaria di I grado provenendo da esperienze di istruzione parentale,
individuale o di gruppo, e che (sempre nel 2009-2010) 2.223 iscritti alle primarie
o alle scuole secondarie di I grado abbiano chiesto, in corso d’anno, di passare
all’istruzione parentale. Scelte minoritarie ed eccentriche sono anche quelle
compiute dalle famiglie che decidono di iscrivere i propri figli a scuole non
paritarie. Anche in questo caso la dimensione quantitativa è marginale, ma
significativa: nel 2009-2010 sono 4.831 gli studenti in età dell’obbligo che hanno
sostenuto gli esami di idoneità per aver frequentato scuole non paritarie.
Ma anche tra la grande maggioranza di genitori che si rivolgono al sistema
pubblico, statale e paritario, sembra andare esaurendosi la spinta ad affidare
all’istituzione scolastica la responsabilità dell’educazione complessiva della
propria progenie. L’impennata dei debiti formativi o i tassi di ripetenze possono
spiegare l’aumento tra il 2001 e il 2009 della quota di studenti coinvolti in corsi o
lezioni private di recupero scolastico, che passa dal 4,4% al 6,7% (tab. 22).
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Diverso è il discorso per le altre attività educative svolte a titolo privato. Tale
fenomeno sembra marcare la presenza di un’esigenza collettiva di arricchimento
curricolare, finalizzato a traguardare il percorso educativo dei giovani al di là
delle competenze di base che la scuola è istituzionalmente chiamata a fornire.
Nel complesso, tra i minori in età scolare ben il 15,7% ha frequentato nel corso
del 2009 almeno un corso o lezione privata, segnando rispetto al 2001 una
differenza positiva di quasi 5 punti percentuali. Si osservano incrementi, ad
esempio, della quota di minori che frequentano corsi di tipo artistico o culturale
(5,9% nel 2009, che sale all’11,1% se si considera la sola fascia d’età 6-10 anni).
Nonostante la maggiore diffusione nel sistema scolastico di attività curricolare o
extracurricolare di formazione linguistica e informatica, si registra un incremento
della pur marginale quota di ragazzi che frequentano tali attività (tra il 2001 e il
2009 si passa dall’1,3% all’1,9% per l’informatica e dal 3,6% al 4,9% per le
lingue, valore che sale al 7,6% per la fascia di 14-17 anni).
Anche la fruizione di spettacoli e altre attività culturali da parte dei minori ha
subito una crescita significativa nel giro di quasi un decennio. Il fenomeno è
sicuramente attribuibile alla maggiore apertura delle scuole verso attività
extrascolastiche, ma anche alla crescita di una domanda individuale e familiare.
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Tra il 2001 e il 2009, la quota di bambini e ragazzi tra i 6 e i 17 anni che sono
andati a teatro passa dal 25,3% al 33%, mentre quella di coloro che hanno visitato
musei e mostre è passata dal 40,9% al 43,5%. In crescita, seppure meno sostenuta,
anche la fruizione di concerti di musica classica (dal 6,6% al 7,8%) e le visite a
siti archeologici e monumenti (dal 26,4% al 26,8%).
Del resto, anche i dati sulla partecipazione giovanile nello sport sembra essere in
linea con i dati e le osservazioni appena illustrate. Le quote di giovani coinvolti in
attività sportive, ormai da anni maggioritarie, crescono soprattutto con riferimento
a quelle attività più strutturate e continuative. Infatti, nel periodo 2001-2009, oltre
ad aumentare di mezzo punto percentuale il peso di coloro che praticano lo sport
almeno saltuariamente (62,9%), crescono soprattutto i 6-17enni che praticano
attività per le quali è necessario iscriversi a un circolo o club sportivo a
pagamento, passando dal 46,1% del 2001 al 52,4% del 2009.
I limiti del galleggiare sul nero
Se il Paese non imbocca con decisione il sentiero della ripresa dipende anche dal
fatto che sul sistema pesano come macigni un debito pubblico abnorme, che ogni
anno drena risorse per il 4,7% del Pil, e un’evasione che le più rosee stime
collocano intorno ai 100 miliardi di euro l’anno e che occulta quasi il 18% della
ricchezza del Paese. Due zavorre che contribuiscono a mantenere il benessere
acquisito, ma certamente impediscono ogni sviluppo e stanno togliendo
dinamicità all’economia e alla società.
Ma la gran parte degli italiani inizia a guardare con molta preoccupazione al
dilagare di quei fenomeni di malcostume, politico e sociale, su cui da sempre è
stata abituata a chiudere un occhio, forse anche un po’ per convenienza. Secondo
un’indagine del Censis, realizzata in collaborazione con il Consiglio nazionale dei
dottori commercialisti, il 44,4% degli italiani individua nell’evasione fiscale il
male principale del nostro sistema pubblico, ponendo in secondo piano la
questione dell’eccessivo livello di tassazione (22%) (tab. 23). Tra gli interventi da
attuare reputati più urgenti, più della metà del campione (il 51,7%) segnala
l’esigenza di accrescere il numero e l’efficacia dei controlli per contrastare
l’evasione: una misura ritenuta di gran lunga prioritaria rispetto alla pur auspicata
riduzione del carico fiscale (23,4%) o alla semplificazione del sistema nel suo
complesso.
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
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Non senza qualche ipocrisia, quella espressa dagli italiani è la condanna estesa e
unanime verso la deriva di un sistema che ha visto crescere esponenzialmente
l’intreccio pericoloso di affarismi e privilegi, in cui la miscela vischiosa di piccole
e grandi prevaricazioni, di opportunismi, di inedite commistioni e abusi di potere
ha drenato sempre più risorse dal pubblico a favore di conventicole e corporazioni
private.
Basti pensare che l’economia irregolare, dopo un lungo periodo di frenata, ha
ripreso a crescere, registrando tra il 2007 e il 2008 un aumento del valore del
3,3% e portando la sua incidenza sul Pil dal 17,2% al 17,6%. A trainarla è stata
proprio la sua componente più invisibile, legata ai fenomeni di sottofatturazione e
di evasione fiscale (+5,2%), la cui incidenza sul valore complessivo del sommerso
raggiunge ormai il 62,8%. Di contro, il valore imputabile al fenomeno del lavoro
irregolare resta sostanzialmente stabile (+0,1%) e la sua incidenza scende, seppure
di poco, dal 38,4% al 37,2%.
Si tratta di un’inversione di tendenza sicuramente presente anche nel 2009 e nel
2010, che viene confermata dalla valutazione della pubblica opinione, che di
questi fenomeni ha conoscenza diretta e diffusa: ben il 60% degli italiani ritiene
che negli ultimi tre anni l’evasione fiscale nel Paese sia aumentata (fig. 13).
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
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Per quanto categorici nel condannare ogni forma di comportamento che confligga
con il raggiungimento del bene comune, alla prova dei fatti non tutti sono poi così
pronti a rinunciare al loro – anche piccolo – tornaconto personale. Di fronte a un
esercente che non rilasci regolare scontrino o fattura, più di un terzo degli italiani
(il 34,1%) ammette candidamente di non richiederlo, tanto più se questo consente
di risparmiare qualche euro (fig. 14).
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Quello che un tempo appariva un fenomeno elusivo quasi naturale e spontaneo,
connaturato alla nostra storia e funzionale ai processi di crescita imprenditoriale e
di patrimonializzazione delle famiglie, ha perso oggi gran parte del suo “valore
sociale”. Certo, non si può negare che anche in momenti di crisi come quello
attuale l’economia “in nero” giochi una sua funzione di ammortizzatore dei disagi
dei lavoratori che si sono trovati a perdere un’occupazione regolare, o delle
famiglie che hanno fatto di tutto per difendere i loro redditi e il loro potere
d’acquisto, pure ricorrendo a qualche escamotage per risparmiare. Ma questa è
davvero poca cosa a fronte del volume di risorse che l’economia informale sottrae
ogni anno a quella ufficiale.
Posti davanti all’opzione “più servizi, più tasse” oppure “meno tasse, meno
servizi”, la maggioranza degli italiani (il 55,7%) propende decisamente per la
prima ipotesi, segnalando, in controtendenza con un passato non troppo lontano,
quando l’abbassamento del livello di imposizione fiscale era al contrario giudicato
prioritario, una voglia inedita di Stato, la richiesta che questo torni a svolgere
quella funzione di protezione e di securizzazione che si è andata progressivamente
affievolendo negli ultimi due decenni e che la crisi, mettendo in discussione molte
delle certezze acquisite sia a livello economico che sociale, ha reso oggi ancora
più urgente (fig. 15).
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I grumi perversi della criminalità organizzata
In tempo di crisi cresce il pericolo che la criminalità organizzata infetti
l’economia legale. La presenza della criminalità organizzata contribuisce senza
dubbio a determinare quel quadro di forte ritardo strutturale delle regioni
meridionali maggiormente coinvolte. Perché, se è vero che la criminalità
organizzata ha ormai allargato i suoi interessi ben oltre il Sud d’Italia e al di fuori
dei confini nazionali, è altrettanto vero che nel Mezzogiorno i suoi effetti restano
decisivi, in quanto al Sud si crea un circuito perverso con l’economia, la politica,
la società civile, tale da bloccare le iniziative di sviluppo nella legalità.
Per Campania, Calabria, Puglia e Sicilia sono stati considerati: i Comuni in cui
sono presenti sodalizi criminali, che risultano essere 448; gli enti locali in cui si
trovano beni immobili confiscati alle organizzazioni criminali, che sono 441; i
Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose negli ultimi tre anni, che sono 36.
Complessivamente 672 Comuni, pari al 41,8% dei 1.608 Comuni delle quattro
regioni, che occupano il 54,8% del totale della superficie territoriale, presentano
almeno un indicatore di criminalità organizzata. In essi vive il 79,2% del totale
della popolazione delle quattro regioni del Meridione, vale a dire 13.440.130
individui, che rappresentano il 22,3% della popolazione italiana. Rispetto a tre
anni fa, è aumentato il numero dei Comuni (che nel 2007 erano 610) e
conseguentemente sono cresciute le popolazioni coinvolte (nel 2007 pari al 77,2%
del totale), nonché la superficie territoriale interessata (che era il 50,8%).
Gli enti locali ove la pressione mafiosa sembra essere maggiore risultano
concentrati principalmente in Campania, nelle province di Napoli e Caserta; in
Calabria, nella provincia di Reggio Calabria e in particolare nella piana di Gioia
Tauro; in Sicilia, nella provincia di Agrigento. Si tratta di circa 380.000 persone
che vivono subendo il pesante condizionamento delle mafie.
La regione dove la presenza della criminalità organizzata e il controllo del
territorio sono più pressanti è la Sicilia (dove il 52,3% dei Comuni presenta
almeno un indicatore di criminalità organizzata), segue la Puglia (con il 43% dei
Comuni), la Calabria (38,4%) e la Campania (36,3%) (fig. 17). La Sicilia è al
primo posto anche per quantità di popolazione coinvolta (l’83,1% del totale),
seguita questa volta dalla Campania (dove abita in un Comune criminale l’81,2%
della popolazione), dalla Puglia (il 77,6% di abitanti vive in un luogo in cui si
respira la presenza della mafia) e dalla Calabria (67,3%) (fig. 18).
Se oltre agli indicatori di carattere demografico si considerano alcuni indicatori
economici, che aiutano ad analizzare il livello di ricchezza e la competitività di
un’area, risulta che nelle zone in cui la pressione mafiosa si fa più sentire si
produce un Pil di 211,5 miliardi di euro, pari al 13,9% del Pil nazionale; mentre
l’incidenza sulla popolazione italiana è ben più elevata, indicando una minore
capacità di generare reddito e di produrre valori, essendo pari al 22,3%.
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4. La frammentazione del potere
Le ambivalenze della verticalizzazione in politica
Quasi il 71% degli italiani ritiene che nell’attuale situazione socio-economica la
scelta di dare più poteri al governo e/o al capo del governo non sia adeguata per
risolvere i problemi del Paese: è un segnale di evidente stanchezza rispetto a un
ciclo lungo della politica italiana iniziato negli anni ’80, con la voglia di più
governabilità e decisionismo, e culminato nella personalizzazione estrema.
Leaderismo e carisma – gran parte del lessico politico di questi anni – non
seducono più: il distacco è più marcato tra i giovani (75%), le donne (76,9%), le
persone con titolo di studio elevato (quasi il 74% dei diplomati e oltre il 73% dei
laureati) e tra i residenti del Nord-Ovest (73,6%) e del Nord-Est (73,7%) (tab. 28).
In particolare, il 55,4% degli intervistati è contrario al rafforzamento dei poteri
dell’esecutivo perché ritiene che occorra far pesare di più il punto di vista dei
cittadini rispetto a quello dei politici. Un ulteriore 15% di intervistati ritiene che,
di fronte agli attuali problemi, nessuno può oggi dire di essere in grado di
risolverli da solo: di questo sono convinti soprattutto i laureati (oltre il 20%) e i
residenti nel Nord-Est (21,1%).
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L’accelerazione dei processi decisionali della politica non si è mai verificata, così
come stenta ad avere concretezza e visibilità la messa al passo di quei fattori
favorevoli alla competizione che dipendono in gran parte da essa, a cominciare
dal funzionamento della Pubblica Amministrazione. A questo proposito, secondo
le indagini dell’Eurobarometro (l’osservatorio d’opinione ufficiale della Ue), nel
2010 il 74% degli italiani giudica negativamente il modo in cui opera la Pubblica
Amministrazione nel nostro Paese: un dato nettamente superiore al valore medio
europeo, che risulta pari al 52%, e superiore in particolare a quanto rilevato in
Olanda (44%), Spagna (53%), Francia (52%), Regno Unito (49%) e soprattutto
Germania (32%) (tab. 29).
Rispetto a cinque anni fa, è il 47% degli italiani a rilevare un peggioramento nel
modo in cui funziona la Pa, mentre nei 27 Paesi dell’Unione europea è in media il
33% a dichiarare di avere percepito un peggioramento; quote ancora più basse
riguardano alcuni dei principali Paesi, come la Germania (20%), la Svezia (24%),
la Spagna (26%) e il Regno Unito (42%) (fig. 20).
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La crisi delle forme di delega al “leader che tutto risolve”, indotta dai ridotti
risultati concreti ottenuti rispetto al dimagrimento degli apparati pubblici e alla
velocizzazione dei processi decisionali e operativi, si inquadra nella persistente (e
forse ormai strutturale) passività dei cittadini e nella loro riluttanza a forme di
mobilitazione collettiva. In sostanza, fatto salvo l’invariante (almeno finora)
interesse per il momento elettorale, dove l’Italia presenta ancora tassi di
astensione mediamente più bassi rispetto agli altri Paesi, la stanchezza verso la
personalizzazione della politica non sta innescando processi di partecipazione, che
tendono invece ad esprimersi su altri fronti, come il volontariato o
l’associazionismo.
I mancati effetti del decisionismo
La politica è apparsa, più che in altre fasi, avvitata su se stessa, nelle vicende
interne ai due blocchi di maggioranza e opposizione, e l’agenda pubblica è
sembrata spesso derivare da un intreccio fra interessi e opinioni, più che dalla
consapevolezza delle priorità del Paese. Non stupisce quindi che l’opinione
pubblica sia rimasta delusa e poco coinvolta, tanto che, secondo una recente
indagine del Censis (luglio 2010), alla domanda sui principali problemi per la
ripresa economica italiana, la maggioranza relativa degli intervistati (il 34,4%) ha
indicato la classe politica litigiosa, poco focalizzata sul tentativo di risolvere i
problemi strutturali del Paese (fig. 21).
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Del resto, se si passa in rassegna la traiettoria di alcuni dei più “rumorosi”
provvedimenti ipotizzati o varati negli ultimi anni, quelli capaci per giorni di
occupare le prime pagine dei giornali o i talk show serali, l’impressione che se ne
ricava è quella di una progressiva assuefazione allo sgonfiamento. Uno
sgonfiamento non solo mediatico, ma dovuto anche alla crescente sproporzione
tra l’enfasi comunicativa della fase di lancio (che il più delle volte ha nella Tv il
palcoscenico preferito) e l’attenzione per il reale impatto delle iniziative di
riforma (tav. 8).
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È quanto è successo nel caso, ad esempio, della Carta acquisti (la cosiddetta social
card) da 40 euro al mese introdotta alla fine del 2008 per aiutare le famiglie più
povere di fronte alla crisi. Nelle intenzioni dichiarate, la platea di riferimento era
costituita da circa 1,3 milioni di beneficiari. Secondo i dati ufficiali forniti dallo
stesso Ministero del Tesoro, le richieste ricevute sono state circa 830.000 e gli
attuali beneficiari della carta sono 450.000: un numero rilevante, ma certo
decisamente lontano dalle prime stime.
Ben maggiori erano le attese riposte nel Piano casa, che puntava a rilanciare
l’edilizia attraverso incentivi volumetrici in deroga a piani e regolamenti edilizi,
per spingere le famiglie italiane ad ampliare il proprio immobile o addirittura a
demolirlo e ricostruirlo, se obsoleto. Le stime effettuate da vari soggetti all’epoca
della discussione del provvedimento parlavano di investimenti di 60 o 70 miliardi
di euro. In realtà, forse per i troppi paletti posti da Regioni e Comuni, forse per lo
scarso interesse delle famiglie italiane in questa fase, il piano non ha generato
l’effetto anticiclico atteso (o temuto, a seconda dei punti di vista). Secondo una
ricerca effettuata da Il Sole 24 Ore, che ha preso in esame oltre 60 Comuni
capoluogo di provincia, a più di un anno di distanza sono state presentate poco
meno di 2.700 istanze: 42 istanze in media, che scendono a 20 se si escludono i
Comuni di Veneto e Sardegna.
Ma certo il caso più paradossale è quello della sicurezza. In questo ambito, infatti,
sono stati ottenuti importanti risultati nella repressione della criminalità
organizzata, con l’arresto di numerosi boss mafiosi e camorristi: risultati un po’
oscurati dall’enfasi posta su altre iniziative a forte impatto comunicativo, sempre
in tema di ordine pubblico. Si pensi ai censimenti nei campi nomadi (in
Lombardia, Campania e Lazio), all’introduzione del reato di immigrazione
clandestina o alla possibilità di dar vita alle cosiddette “ronde” (“attività di
volontariato con finalità di solidarietà sociale nell’ambito della sicurezza
urbana”), novità che hanno diviso per settimane l’opinione pubblica ma che, al di
là del clamore suscitato alla vigilia, sono state sostanzialmente dimenticate per il
loro scarso impatto reale.
Un tema poi sul quale gli annunci appaiono fare sempre meno presa è quello delle
infrastrutture: difficile oggi scaldare l’opinione pubblica italiana mettendo in
gioco la promessa di piccole e grandi opere, data l’assuefazione a tempi
lunghissimi e a scadenze mancate. Del resto, secondo uno studio del Ministero
dello Sviluppo Economico, per realizzare un’opera pubblica di valore superiore a
50 milioni di euro nel settore dei trasporti ci vogliono in Italia mediamente 3.942
giorni, quasi 11 anni.
Il caso dell’ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria è diventato
emblematico della distanza tra previsioni e tempi effettivi di realizzazione: basti
ricordare che i lavori sono stati avviati nel 1997 e il loro completamento, fissato al
2003, è stato posticipato prima al 2008 e poi al 2013.
Ma anche la famosa Variante di Valico (i 60 chilometri di autostrada del sole tra
Barberino del Mugello e Sasso Marconi), pensata già all’inizio degli anni ’90 per
adeguare e potenziare la dorsale centrale del traffico del Paese, sconta ritardi
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FONDAZIONE CENSIS
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ingenti: l’impegno per la sua realizzazione risale al primo Governo Prodi del
1996, le prime ottimistiche previsioni temporali parlavano di opera completata nel
2006, la data è stata poi slittata al 2011 e ora si parla della fine del 2013, facendo
anche della variante una vicenda quasi ventennale.
Federalismo fiscale:
la sfida delle responsabilità diffuse
Il federalismo fiscale, terza tappa del processo di trasferimento di competenze e
risorse dal centro alla periferia, dopo il decentramento amministrativo delle Leggi
Bassanini (1997) e il federalismo legislativo della riforma del Titolo V della
Costituzione (2001), è giunto in questi mesi alla sua fase di attuazione e inizia
quindi a rendere visibili i tratti fondamentali della sua configurazione.
Se si osservano i dati dei conti non consolidati riconducibili allo Stato, alle
amministrazioni locali e agli enti di previdenza, si può individuare il
disallineamento fra potere fiscale e potere di spesa: lo Stato sfiora i 400 miliardi di
euro di entrate, e di questi la componente più evidente è rappresentata dalle
imposte dirette e indirette (336 miliardi di euro); spende circa 460 miliardi di
euro, ma di questi una parte importante è rappresentata dai trasferimenti correnti a
enti pubblici (prevalentemente territoriali) per circa 200 miliardi di euro. Le
amministrazioni locali (Regioni ed enti locali) raccolgono 250 miliardi di euro di
entrate, ma di questi meno della metà proviene dall’azione tributaria, mentre il
grosso della partita (112 miliardi) è rappresentato da trasferimenti ricevuti dalle
amministrazioni centrali. Se nel complesso circa il 60% delle entrate ha carattere
tributario, tale rapporto raggiunge l’87,3% nel comparto dello Stato e si ferma al
37,1% nelle amministrazioni locali.
Ammonta a circa 7,5 miliardi di euro la componente dei trasferimenti dallo Stato
alle Regioni che può essere considerata oggetto di riscossione diretta. A livello dei
Comuni, il volume finanziario di riferimento, su cui provare a effettuare
un’ipotesi di fiscalizzazione, dovrebbe invece aggirarsi intorno ai 14 miliardi di
euro, mentre per ciò che riguarda le Province l’entità ammonterebbe a circa 1,2
miliardi di euro.
L’impianto complessivo della riforma si presenta ambizioso e tale, se
adeguatamente realizzato, da poter modificare positivamente il rapporto fra i
diversi livelli di governo e di avvicinare maggiormente l’azione pubblica al
controllo diretto dei cittadini. Resta il fatto che l’approccio di base, rafforzato del
resto dallo strumento della delega al Governo, risulta ancora una volta
congenitamente fondato sulla volontà centrale e che tale capacità di iniziativa non
trova nello stesso tempo un’efficace interlocuzione da parte del sistema delle
amministrazioni locali, intrinsecamente debole e costretto, anche in questo caso, a
subire e non a guidare il processo di riforma.
Processi formativi
(pp. 105 – 176 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
FONDAZIONE CENSIS
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La scuola digitale tra aspettative elevate
e criticità attuali
Sul tema dell’introduzione delle Lavagne interattive multimediali (Lim) nelle
scuole, quali supporti didattici suscettibili di innovare ambiente di apprendimento
e metodologie didattiche, il Censis ha avviato una riflessione con i dirigenti
scolastici. Delle oltre 1.000 scuole contattate, l’84,9% possiede una o più Lim,
dislocate in aule ordinarie o in laboratori e aule speciali, senza differenze
significative in base alla dislocazione geografica degli istituti coinvolti nella
rilevazione: si oscilla tra l’88% nel Nord-Ovest all’83,4% nel Sud.
Stando alle risposte dei dirigenti scolastici, nel 91,4% dei casi le risorse per
l’acquisto delle Lim hanno avuto origine ministeriale. In misura notevolmente
minore, e spesso in aggiunta all’azione ministeriale, le Lim sono state acquistate
dalle scuole con propri fondi (20%) o grazie all’intervento di Regioni ed enti
locali (10%), o infine donate da soggetti privati (6,6%) (tab. 2).
Le lavagne interattive sono state assegnate, in primo luogo, a quelle classi in cui
sono presenti docenti che hanno effettuato la formazione prevista per la loro
introduzione nelle scuole (35,9%) o con le più elevate competenze nella didattica
digitale (31,3%). Secondariamente sono state posizionate in ambienti scolastici,
siano essi laboratori/aule speciali (37,9%) o aule ordinarie (12,4%), ove a
rotazione possono essere presenti più gruppi classe (tab. 3).
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Le aspettative rispetto alle Lim sono elevate: secondo i dirigenti scolastici, gli
aspetti per i quali il loro supporto può essere più proficuo sono la maggiore
attenzione e partecipazione attiva degli studenti (8,12 su una scala da 1 a 10) e la
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possibilità di approfondire alcuni ambiti disciplinari (7,79). Seguono il
rafforzamento della motivazione/competenze professionali dei docenti (7,67),
apprendimento collaborativo e produzione di materiali didattici riutilizzabili
(7,60), sviluppo di approcci interdisciplinari (7,52), supporto per allievi disabili e
con disturbi specifici dell’apprendimento (7,50).
Il 51,4% del corpo docente dichiara che il loro impiego ha prodotto nuovi
fabbisogni di formazione dei docenti, non ancora del tutto soddisfatti; il 48,8%
afferma che la scarsa autonomia dei docenti nella creazione di contenuti digitali
determina una sottoutilizzazione delle lavagne e il 34,7% ritiene che l’impiego
delle Lim non sia agevolato dalla rigidità dei docenti prossimi alla pensione, che
hanno difficoltà a rimettere in discussione il proprio approccio didattico. Per poco
più della metà dei dirigenti (50,9%) il numero ridotto di Lim rispetto a quello
delle classi rischia di creare un divario nei livelli di apprendimento dei gruppi, a
discapito del diritto di ciascun alunno ad avere pari opportunità nell’accesso ai
saperi e livelli di istruzione paritetici; mentre per il 36,6% influisce
sull’organizzazione delle attività scolastiche dell’istituto, in termini di criteri di
scelta per la loro assegnazione, rapporti tra docenti e con quelle famiglie che
lamentano l’indisponibilità delle Lim per i loro figli.
L’importanza crescente del contributo finanziario
di famiglie e privati alle scuole italiane
I contributi volontari versati dalle famiglie sono un’entrata sempre più
fondamentale per la gestione e la didattica delle scuole statali. In realtà, la
richiesta del cosiddetto “contributo volontario” non riguarda la totalità degli
istituti scolastici ed è condizionata, oltre che dalla necessità di integrare i fondi a
disposizione, da fattori quali il livello scolastico, la collocazione geografica e lo
status socio-economico dell’utenza. In base ai primi risultati di una indagine che il
Censis sta conducendo al riguardo, da quanto dichiarato finora da un panel di
1.099 dirigenti scolastici, il 53,1% delle scuole statali di ogni ordine e grado,
coinvolte nella rilevazione, ha richiesto quest’anno il contributo, ma nel restante
43,5% tale consuetudine non si è ancora diffusa.
La frequenza della richiesta del contributo volontario aumenta al crescere dei
livelli scolastici: si va dal 34,7% di scuole dell’infanzia all’85,6% dei licei. Le
somme richieste a livello prescolare o di scuola dell’obbligo sono in media di
modesta entità (16,4 euro nella scuola dell’infanzia e 19,8 euro nella scuola
secondaria di I grado). Nelle scuole di II grado, invece, il contributo medio
supera, per tutti gli indirizzi, gli 80 euro pro-capite. Le oscillazioni intorno alla
media sono però molto ampie e nelle scuole intervistate si raggiungono anche i
100 euro per scuole dell’infanzia e primarie e i 260 euro dei licei (tab. 5).
Il 25% degli istituti che già richiedono un contributo dichiara di averne dovuto
aumentare l’importo rispetto allo scorso anno e solo il 20,6% di dirigenti
scolastici ritiene di non aver bisogno di reiterare o introdurre tale modalità di
finanziamento nel prossimo anno scolastico (tab. 6).
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La risposta delle famiglie alle richieste economiche delle scuole sembra essere di
diffusa collaborazione. Ricordando che si tratta di contributi volontari, emerge che
aderisce mediamente alla richiesta di contributo l’82,7% dei genitori. L’ampiezza
del livello di adesione appare dettato, non solo dalla consuetudine, ma anche da
due crescenti esigenze di segno contrapposto: quella di tamponare le carenze di
materiali e strumenti per il funzionamento ordinario dell’istituzione e quella di
sostenere la qualità e varietà dell’offerta formativa. La destinazione d’uso dei
contributi familiari si divide quasi equamente tra queste due esigenze, con una
leggera prevalenza (54%) degli interventi a supporto dell’offerta formativa, che
comunque riguardano soprattutto l’adeguamento della strumentazione e degli
ambienti di studio. Infatti, tali interventi consistono soprattutto in acquisto di
materiali didattici (77,2% delle scuole), miglioramento di dotazioni informatiche,
laboratori, palestre (58,3%), ma rivestono un peso considerevole (43,1%) anche le
finalità di supporto economico agli studenti più indigenti per assicurare la loro
partecipazione alle attività didattico-formative.
Il quadro delle diverse tipologie di supporto economico straordinario alle scuole si
completa con i finanziamenti provenienti, sotto varie forme, da soggetti privati
esterni all’istituto scolastico. Tale fenomeno interessa il 36,4% delle scuole
intervistate nel complesso, ma risulta molto più diffuso negli istituti dislocati
nelle aree centro-settentrionali del Paese. Il principale canale di reperimento di
risorse aggiuntive private è costituito dalle donazioni effettuate da una pluralità di
soggetti (46,4% dei casi), cui si aggiungono le piccole donazioni che talvolta le
scuole riescono ad ottenere dalle banche che fungono da tesoreria e presso le quali
è aperto il conto della scuola. Un fenomeno in crescita è quello del reperimento di
risorse grazie ai proventi dovuti all’installazione di macchine distributrici di
bevande e alimenti (34,8%), e quello della individuazione di uno sponsor per
talune attività o di concessione di spazi pubblicitari (31,8%).
Tecnici superiori: sarà la volta buona?
La marginalità dell’istruzione post-secondaria, ma anche di quella terziaria “non
accademica”, è del tutto evidente se confrontata con le realtà dei principali Paesi
industrializzati. Il tasso di diploma post-secondario è pari in Italia al 3%, meno
della metà del dato medio Ocse (7,2%), mentre la quota nazionale di studenti che
concludono percorsi di istruzione terziaria tecnico-professionali orientati
all’inserimento professionale si è attestata nel 2008 sullo 0,7% (media Ocse:
12,2%).
Rispetto al volume di attività formative di II livello normalmente erogate, l’offerta
Ifts programmata e avviata dalle Regioni nel corso del decennio 1998-2009 −
consistente in 3.501 corsi − risulta residuale, poco visibile e condizionata dai
tempi e dalle procedure dei bandi di gara (tab. 7).
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Dopo l’esperienza pur parziale dei Poli formativi, il quadro normativo e
regolamentativo si è arricchito di nuovi strumenti e opportunità. Si sta
cominciando a innestare un nuovo modello d’offerta, il cui asse portante è
costituito proprio dagli Istituti tecnici superiori (Its). L’instaurazione di una stretta
correlazione tra politiche di sviluppo industriale e politiche formative è una novità
positiva nel panorama italiano. Essa segna il tentativo di dare vita a una nuova
filiera formativa rispondente alle direttrici di sviluppo di un Paese avanzato,
combinando esigenze nazionali e locali.
15 Regioni hanno cominciato a reagire avviando la costituzione di 48 Its (21 al
Nord, 14 al Centro e 13 al Sud e nelle isole) operativi soprattutto nel settore delle
nuove tecnologie per il made in Italy (24), mobilità sostenibile (8), tecnologie
dell’informazione e della comunicazione ed efficienza energetica (5), tecnologie
innovative per i beni culturali/turismo e tecnologie per la vita (3).
Le sfide da affrontare per un rilancio
del sistema universitario italiano
A fronte dell’iter di riforma del sistema universitario tuttora in corso, la
consapevolezza di un quadro sempre più articolato di problematiche e di possibili
azioni correttive traspare con buona evidenza dai risultati della tradizionale
indagine del Censis sui presidi di Facoltà (tab. 10).
Al primo posto – come lo scorso anno – i presidi individuano come fattore di
spinta della competitività il costante miglioramento dei servizi offerti (53,8% di
consenso). In questo contesto è interessante evidenziare come nel corso del
triennio 2008-2010 per la realizzazione di reti Wi-Fi o per il loro completamento
ben 60 atenei o raggruppamenti di atenei hanno avuto finanziamenti e stanno
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realizzando progetti finanziati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per un
investimento complessivo di oltre 25 milioni di euro.
Al secondo e terzo posto vengono indicati come fattori rilevanti la mobilità
internazionale degli studenti (46,2%) e lo sviluppo di collaborazioni internazionali
(37,5%). Sempre in relazione all’internazionalizzazione, è interessante notare
come un preside su 4 (26%) indichi rilevante lo sviluppo di corsi di laurea a
doppio o congiunto titolo.
Le gerarchie lette su scala territoriale evidenziano uno stato dell’arte differenziato
tra aree del Paese. Mentre i presidi del Nord indicano la mobilità internazionale
degli studenti per il 38%, quelli del Sud la indicano nel 58,4% dei casi; viceversa,
lo sviluppo del titolo congiunto è segnalato da 31 presidi su 100 al Nord e da 19
su 100 al Sud.
FONDAZIONE CENSIS
58
La marcata attenzione al tema dell’internazionalizzazione risulta anche dalle risposte
dei presidi sul piano delle strategie di medio periodo. L’item con il più alto grado di
accordo è quello relativo all’esigenza di raccordarsi con i grandi network di ricerca
internazionale. Al secondo posto, a pari merito l’esigenza di internazionalizzare anche
la dimensione della didattica (4,9) e la creazione di corsi di laurea progettati per
studenti eccellenti (4,9), con l’introduzione di una cultura di segmentazione
dell’utenza che trova le prime sperimentazioni in alcune facoltà italiane.
Rallenta la crescita degli alunni stranieri a scuola
Pur se ancora di segno positivo, il tasso di incremento della presenza di alunni con
cittadinanza non italiana manifesta una progressiva decelerazione, attestandosi sul
+7% nell’anno scolastico 2009-2010. In termini assoluti, si tratta di un incremento
di 44.232 alunni, pari ad un peso percentuale del 7,5% sul totale della popolazione
scolastica. In particolare, la presenza di alunni con cittadinanza non italiana
supera la quota dell’8% nella scuola dell’infanzia (8,1%), primaria (8,7%) e
secondaria di I grado (8,5%), e si mantiene intorno al 5% nella secondaria di II
grado (5,3%) (tab. 22).
FONDAZIONE CENSIS
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FONDAZIONE CENSIS
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Aumentano le esperienze di alternanza scuola-lavoro
Continua la diffusione nelle scuole secondarie di II grado di esperienze strutturate
di alternanza scuola-lavoro, che nel 2009-2010 hanno coinvolto 71.561 studenti
(+3,2% rispetto al 2008-2009) di 1.331 istituti (+22,3%). Il numero di imprese
coinvolte si avvicina alla soglia delle 30.000 unità. In lieve crescita (+0,8%) anche
il numero di studenti degli istituti professionali impegnati in esperienze scuolalavoro
nell’ambito dei progetti della “area di professionalizzazione” (tab. 25).
Lavoro, professionalità, rappresentanze
(pp. 177 – 255 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
63
Allarme giovani
La crisi sembra avere prodotto i suoi perversi effetti su una sola componente del
mercato del lavoro, quella giovanile. Nel 2009, tra gli occupati di 15-34 anni si
sono persi circa 485.000 posti di lavoro (-6,8%) e nei primi due trimestri del 2010
se ne sono bruciati quasi altri 400.000 (-5,9%). Di contro, se si esclude la fascia
immediatamente successiva, dei 35-44enni, dove pure si è registrato un
decremento del livello di occupazione (-1,1% tra il 2008 e il 2009 e -0,7% nel
2010), in tutti gli altri segmenti generazionali, non solo l’occupazione ha tenuto,
ma è risultata addirittura in crescita: è aumentata di 85.000 unità tra i 45-54enni
(+1,4% tra il 2008 e il 2009) e di più di 100.000 tra gli over 55 (+3,7%). E i primi
segnali relativi al 2010 (+2,4% per i primi, +3,6% per i secondi) sembrano andare
nella stessa direzione.
Tra le ragioni che hanno visto cosi penalizzata la componente giovanile del
lavoro, oltre al maggiore coinvolgimento nei fenomeni di flessibilità (tra il 2008 e
il 2009, a fronte della sostanziale tenuta del lavoro a tempo indeterminato, si è
avuta una fortissima contrazione sia del lavoro a progetto del 14,9%, che del
lavoro temporaneo del 7,3%), non va trascurata la crescente inadeguatezza del
sistema formativo nel produrre le competenze che servono davvero alle imprese e
nel formare i giovani al lavoro.
A fronte di una domanda che riflette le esigenze specifiche del sistema produttivo,
l’offerta rischia di risultare poco rispondente:
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
64
- perché in pochissimi casi i giovani che si presentano sul mercato del lavoro
possono vantare un’esperienza lavorativa alle spalle: tra quanti hanno 15-19
anni ha seguito nel corso degli studi un programma di formazione-lavoro il
12,3% e svolto un lavoro retribuito il 3,5%. Migliora un po’ la situazione nella
fascia d’età successiva, tra i 20 e i 24 anni, dove la percentuale sale al 37,2%;
- perché vi è una quota ancora estremamente ampia di giovani che si presenta sul
mercato senza un bagaglio di competenze e conoscenze specifiche: tra i
giovani fino a 35 anni che ricercano un lavoro, ben il 37% possiede al massimo
il titolo di scuola media; la maggioranza ha un diploma o una qualifica
professionale (rispettivamente il 43,1% e il 6,2%) e “solo” il 13,8% è laureato;
- perché l’offerta formativa risulta solo in parte adeguata a soddisfare i
fabbisogni delle aziende, considerato che nel 26,7% dei casi queste incontrano
difficoltà a recuperare le competenze tecnico-professionali di cui hanno
bisogno per il ridotto numero di candidati o per la mancanza di preparazione
degli aspiranti.
Nell’ultimo decennio, a fronte di una crescita del lavoro dipendente di 2.406.000
unità (+16,2% tra il 1999 e il 2009), i lavoratori autonomi sono diminuiti di circa
200.000 unità (-3,8%), portandone l’incidenza complessiva sul totale degli
occupati dal 26,6% al 24,5%. Tra le diverse tipologie di lavoro autonomo, ad
essere più in crisi è quello imprenditoriale. Tra il 2004 e il 2009, il numero di
imprenditori è passato da 400.000 circa a 260.000 (-35,1%), con una perdita netta
di circa 140.000 unità non compensata da significativi incrementi di altre tipologie
di lavoratori. Se si esclude infatti il lavoro libero professionale, che ha registrato
una piccola crescita (+2,2%), anche i lavoratori in proprio, ovvero i piccoli
artigiani e commercianti, hanno visto indebolite le proprie fila, con una perdita
secca di oltre 90.000 occupati (-2,5%).
Si tratta di una tendenza riconducibile anche alle crescenti difficoltà che il mondo
del lavoro autonomo ha affrontato nell’ultimo decennio. Stando ad una recente
indagine del Censis realizzata a settembre, dal 2008 il 30,1% dei lavoratori
autonomi si è trovato a dover chiedere soldi in prestito a banche o amici e parenti:
un valore di gran lunga superiore a quello dichiarato dai lavoratori dipendenti
(24,6%), dai pensionati e dalle casalinghe (19,7%). Peraltro, ben il 12,4% (contro
il 7,1% dei dipendenti) dichiara di averlo fatto per far fronte alle spese di tutti i
giorni, e l’11,8% per provvedere a quelle impreviste come malattie o esigenze
dell’azienda (tab. 6).
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
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L’anno zero della contrattazione
La maggioranza degli italiani sembra ormai convinta che la crescita di
competitività di cui il sistema Italia ha bisogno non possa avvenire senza un
surplus di impegno da parte di tutti. Circa l’80% si dichiara d’accordo sul fatto
che la retribuzione dei lavoratori dovrebbe essere collegata per una quota
significativa alla produttività individuale: un giudizio che trova molto d’accordo il
37,6% degli intervistati e abbastanza d’accordo il 41,1%.
I lavoratori sembrano pronti a recepire le innovazioni di gestione e organizzazione
del sistema del lavoro: innovazioni non più derogabili, considerato che l’Italia è il
Paese dell’Ue che negli ultimi anni ha visto diminuire di più il valore della
produttività del lavoro (-3,5% a fronte di una crescita media del 3%) (fig. 6).
Una delle strade da percorrere è il rilancio della contrattazione decentrata. Stando
ai dati della Banca d’Italia, nell’ultimo decennio tra le aziende industriali con oltre
20 addetti il ricorso alla contrattazione di secondo livello è andato
progressivamente diminuendo: se alla fine degli anni ’90 erano il 43,4% le
aziende che nel corso del decennio (1990-1998) avevano sottoscritto almeno un
contratto integrativo aziendale, coinvolgendo il 64,1% degli addetti, nel 2008 la
percentuale scendeva al 30,6% e quella degli occupati al 54,4%.
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
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Il nodo del terziario
Nell’ultimo decennio il terziario è stato, assieme alle costruzioni, il settore che più
ha contribuito all’aumento della forza occupazionale del Paese, con la creazione
tra il 1999 e il 2009 di 2,2 milioni di nuovi posti di lavoro: posti che hanno
abbondantemente colmato le pur significative perdite registratesi sia
nell’agricoltura (-150.000 unità circa) che nell’industria (-280.000 lavoratori). La
capacità di crescita del settore si è andata però progressivamente esaurendo e,
assieme a questa, il contributo alla creazione di nuova occupazione è passato da
1,3 milioni nel quinquennio 1999-2004 a 890.000 in quello 2004-2009. Peraltro, il
negativo andamento dell’ultimo anno (-0,8% tra il 2008 e il 2009), non
controbilanciato da una ripresa nell’anno in corso (al secondo trimestre del 2010 i
dati evidenziano una tendenziale stagnazione), sembra confermare i segnali già
emersi.
Le dinamiche interne al comparto sono tuttavia molto differenziate. Per
definizione settore in espansione, tutto il mondo dei servizi sociali alla persona e
alla famiglia costituisce un’area in forte crescita occupazionale (+36,3% tra il
2004 e il 2009) (tav. 2). I settori in consolidamento sono invece quelle aree del
terziario che già da tempo hanno avviato processi di ristrutturazione interna, come
la sanità e l’istruzione, e il terziario alle imprese, che ha registrato una sostenuta
crescita del lavoro (+9,9%). Vi sono invece alcuni settori che stanno vivendo una
vera e propria fase di metamorfosi, caratterizzata da uno stravolgimento degli
assetti organizzativi, come il turismo (+12,7%) e la grande distribuzione (+14%).
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
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Più all’insegna dell’immobilismo appare invece la situazione in altri settori, come
il credito, il comparto assicurativo e i trasporti, dove non si riscontrano
apprezzabili fenomeni sul versante del lavoro, mentre in deciso
ridimensionamento occupazionale appaiono comparti come il commercio al
dettaglio, che ha subito tra il 2004 e il 2009 un calo dell’occupazione del 6,1%, e
la Pubblica Amministrazione (-2,8%).
La tenace resistenza delle donne
L’occupazione femminile sembra resistere meglio di quella maschile. Tra il 2008
e il 2009 sono stati gli uomini a registrare i maggiori contraccolpi della crisi, con
una perdita secca di 274.000 occupati (-2%). Anche le donne hanno visto ridurre
la propria partecipazione al lavoro, ma in misura decisamente meno drammatica:
sono stati infatti bruciati 105.000 posti di lavoro femminili, con un calo netto
dell’1,1% (tab. 11). Una tendenza che sembra confermata anche nell’anno che sta
per concludersi, considerato che nei primi due trimestri del 2010, a fronte di
un’ulteriore contrazione dell’occupazione maschile dell’1,1%, quella femminile
registra un calo “solo” dello 0,5%.
Anche rispetto alla partecipazione al lavoro, le donne hanno tenuto meglio dei
colleghi maschi, segnalando, contrariamente alle attese, un tasso di abbandono del
mercato decisamente inferiore (le forze lavoro maschili sono diminuite dello
0,6%, quelle femminili dello 0,3%) e un aumento delle non forze lavoro molto più
contenuto di quello maschile. Non va sottovalutato come le donne continuino a
presentare, almeno sotto il profilo contrattuale, una condizione di rischio
maggiore rispetto ai colleghi maschi: nel 2009 risultano infatti occupate con
contratti atipici il 14,3% di esse (contro l’8,9% degli uomini), per lo più con
contratti a termine (11,9%) e in parte di collaborazione a progetto o occasionale
(2,4%).
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
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FONDAZIONE CENSIS
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La sicurezza che ancora non c’è
Il 44,3% dei collaboratori domestici ha avuto almeno un incidente sul lavoro
nell’ultimo anno, l’11,3% addirittura più di uno. Si tratta di incidenti che nella
maggior parte dei casi non comportano alcun tipo di inabilità al lavoro (48,6%) e
tanto meno l’esigenza di assentarsi (71,5%), ma non si può sottovalutare come
esista una quota non trascurabile (il 28,5%) che, al contrario, oltre a produrre
effetti sulla salute, condiziona il proseguimento dell’attività comportando, causa
inabilità, l’assenza dal lavoro: nel 18,8% dei casi superiore ai tre giorni,
nell’11,9% superiore alla settimana.
Bruciature (18,7%), scivolate (16,1%), cadute dalle scale (12,2%) sono gli
incidenti più frequenti tra colf e badanti. Ma la casistica appare più ampia, con
casi frequenti di ferite prodotte dall’utilizzo di coltelli, elettrodomestici (8,6%),
strappi e contusioni da sollevamento (7,6%), intossicazioni con prodotti per pulire
(4,2%), scosse elettriche (3,6%).
I lavoratori domestici si mostrano molto poco attenti al problema: basti pensare
che il 12,4% dichiara di non preoccuparsi più di tanto della propria sicurezza, e
chi lo fa preferisce le soluzioni “fai da te”, tanto che alla richiesta di indicare
come la tutela, affermano nel 46,1% dei casi di affidarsi all’esperienza, mentre nel
18,6% di mantenere la concentrazione durante il lavoro. Solo il 22,9% mostra
curiosità e attenzione dichiarando di informarsi sulla materia.
Il sistema di welfare
(pp. 257 - 348 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS 73
L’onda lunga della comunicazione sulla salute
Il boom dell’informazione sanitaria cui si è assistito dagli anni ’90 mostra oggi gli
effetti positivi del diffondersi nel corpo sociale di comportamenti preventivi e stili
di vita corretti, ma al contempo si osservano alcuni effetti perversi che la
spettacolarizzazione dell’informazione sanitaria produce a livello di conoscenze
individuali. Secondo un’indagine del Censis il 50,2% degli italiani è convinto che
non sia vero che le persone con sindrome di Down abbiano pressoché sempre un
ritardo mentale, e addirittura è il 73% a pensare che le persone autistiche siano
quasi sempre geniali nella matematica, nella musica o nell’arte (tab. 2).
Le narrazioni mediatiche in cui prevale la spettacolarizzazione di singole vicende
(come quelle di persone con sindrome di Down che hanno capacità cognitive nella
norma e che riescono a laurearsi, oppure i casi degli “autistici sapienti”),
statisticamente rarissime, finiscono per sedimentarsi sotto forma di pseudonozioni
per ampi settori della popolazione.
Secondo un’indagine del Censis sull’ictus, per la maggioranza degli italiani questa
patologia è quasi sconosciuta: meno della metà sa che colpisce il cervello, e la
grande maggioranza non conosce né la trombolisi (la terapia specifica che può
ridurne in modo significativo le conseguenze), né la stroke unit (il reparto
specifico) (tab. 3). Eppure, si tratta della terza causa di morte in Italia, mentre per
chi sopravvive all’evento si prospetta in molti casi la disabilità permanente, ma se
la corretta informazione sull’ictus fosse più diffusa tanti casi potrebbero avere un
esito diverso.
Un’altra tipologia di informazione sulla salute che può produrre distorsioni è
quella sui casi di malasanità: il problema esiste, ed è compito dei media fare luce
sulle inefficienze del sistema con il massimo rigore, ma il diffondersi della
convinzione che l’errore medico sia frequente e probabile alimenta la
conflittualità nel rapporto tra cittadini e istituzioni sanitarie, e soprattutto
contribuisce allo schiacciamento su dimensioni narrativamente più efficaci della
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS 74
comunicazione sulla salute, a scapito di un’informazione che fornisca ai cittadini
strumenti concreti per far valere i propri diritti in modo stringente.
Le nuove frontiere del consumo farmaceutico
La dinamica di lungo periodo dei consumi farmaceutici territoriali fa osservare la
tendenza a un costante aumento dei consumi complessivi in termini di dosi e
confezioni, a fronte di un aumento molto contenuto della spesa territoriale totale.
All’interno della stessa spesa territoriale, quella a carico del Ssn (convenzionata) e
quella privata (a carico dei cittadini) mostrano andamenti di segno opposto: dal
2001 la spesa convenzionata è rimasta sostanzialmente stabile, mentre la spesa
privata fa osservare un aumento continuo (tab. 4). Le politiche di contenimento
mostrano quindi la loro efficacia, ma solo sulla spesa a carico del Ssn, mentre i
cittadini hanno pagato in questi anni sempre di più, sia per l’aumento dei ticket
che per l’aumento dei prezzi dei farmaci non rimborsabili.
Nell’anno in cui la crisi ha fatto sentire i suoi effetti sulle famiglie italiane, circa il
50% ha dichiarato che la spesa per la salute è molto (11,4%), abbastanza (28,2%)
o un po’ (8,3%) aumentata, mentre oltre la metà degli italiani (il 53,3%) ha
indicato di aver intensificato nel 2009 il ricorso ai farmaci generici con
l’obbiettivo del risparmio.
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS 75
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS 76
La disabilità invisibile
La dimensione sociale prevalente della disabilità è l’invisibilità, o quanto meno
una visibilità distorta, che si allinea con il crescente arretramento delle politiche
per le persone disabili. Gli italiani tendono infatti a sovrastimare da un lato il peso
della disabilità motoria (il 62,9% pensa anzitutto a questo tipo di limitazione)
(tab. 7), dall’altro a non includere in questo concetto, o a farlo solo in parte, la
questione della non autosufficienza degli anziani, che pure rappresenta un tema
che pesa nella vita quotidiana di moltissime famiglie nel nostro Paese: il 29,4%
pensa che la disabilità sia equamente distribuita tra i bambini e i giovani, gli adulti
e la popolazione anziana.
La visione distorta del problema è un importante indicatore della persistente
negazione sociale che è alla base delle condizioni delle famiglie, spesso lasciate
sole a gestire tutte le difficoltà che la disabilità comporta. Secondo la recente
stima del Censis si tratta complessivamente di circa 4,1 milioni di persone
disabili, pari al 6,7% della popolazione, con cui gli italiani mostrano di
relazionarsi con difficoltà.
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS 77
Le opinioni raccolte a proposito del livello di accettazione sociale delle persone
con disabilità intellettiva riflettono questo modello: la maggioranza degli italiani
(il 66%) ritiene che esse siano accettate solo a parole, ma che nei fatti vengano
spesso emarginate, mentre il 23,3% condivide un’opinione più negativa, per cui la
disabilità mentale fa paura e queste persone si ritrovano quasi sempre discriminate
e sole (tab. 8).
Il volontariato come pilastro della comunità
Oltre il 26% degli italiani dichiara di svolgere attività di volontariato, all’interno
di realtà organizzate o in modo spontaneo, informale. La scelta di fare
volontariato è molto più radicata tra i giovani (più del 34%), rimane elevata tra i
30-44enni (più del 29%), per poi calare al 23% tra i 45-64enni e al 20,3% tra gli
anziani.
È all’interno di realtà organizzate che circa tre quarti dei volontari svolgono il
proprio impegno, e di questi la maggioranza (54,5%) lo fa all’interno di una
specifica organizzazione, mentre poco meno del 10% lo fa in più di una
organizzazione.
Riguardo alle motivazioni, oltre il 38% dei volontari intervistati dichiara di
svolgere attività di volontariato perché vuole fare qualcosa per gli altri, mentre il
27,3% richiama ragioni etiche, ideali (tab. 11). Un plebiscitario 97% valuta
positivamente l’attività di volontariato in cui è impegnato, il 59% perché fa una
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS 78
cosa alla quale crede nel profondo e che è gratificante, il 38% perché è convinto di
incidere positivamente sulla vita delle persone, in particolare quelle che hanno più
bisogno.
Ospedali, case di cura, strutture sanitarie in generale (69%), case di riposo,
comunità alloggio, presidi socio-assistenziali di vario tipo (54,3%), poi le varie
forme di assistenza a domicilio per anziani e non autosufficienti (39,9%): sono
questi i tre settori in cui i cittadini constatano una maggiore presenza di volontari
nelle comunità in cui vivono.
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS 79
Tutele sociali e crisi,
oltre le buone risposte di breve periodo
L’efficacia degli ammortizzatori di tamponamento dell’emergenza reddituale
legata alla crisi occupazionale non attenua il fatto che la crisi sta ampliando, al di
là del breve periodo, la platea dei soggetti del disagio sociale. Ben il 91% dei
disoccupati di famiglie monoreddito in Italia sono da considerarsi a rischio
povertà, contro il 32% del Belgio, il 55% della Spagna e il 75% del Regno Unito.
In tale quadro assume rilievo la valutazione che viene espressa dai cittadini
riguardo agli strumenti di tutela e supporto per i disoccupati. Il 62% degli italiani
esprime un giudizio negativo su questa tipologia di strumenti di tutela, quota che
risulta nettamente superiore al dato medio europeo, pari al 45%, e lontana dalle
valutazioni espresse dai cittadini di numerosi altri Paesi come la Francia, dove il
giudizio negativo è espresso dal 29% dei cittadini, il Regno Unito (28%), la
Germania (39%) e i Paesi Bassi (13%) (tab. 14).
Quello che colpisce è che il 44% degli intervistati italiani ritiene che negli ultimi
cinque anni la situazione sia peggiorata, dato superiore a quello medio europeo
(38%). Il dato italiano è più alto di quello della Francia, dove è il 39% dei cittadini
a ritenere che gli strumenti di tutela dei disoccupati siano peggiorati negli ultimi
cinque anni, e a quelli dei Paesi Bassi (30%) e del Regno Unito (27%).
Anche sullo specifico terreno della lotta alla povertà le valutazioni degli italiani
non sono positive. Richiesti di indicare l’impatto che secondo loro stanno avendo
le politiche e gli interventi finalizzati a migliorare la condizione dei poveri in
Italia, ben il 59% dichiara che non stanno avendo un particolare impatto, il 21%
sostiene che addirittura stanno peggiorando le cose e solo il 10% parla di un
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS 80
impatto positivo. Nella media europea il 64% dei cittadini ritiene neutro l’impatto
delle politiche contro la povertà, il 10% negativo e il 18% positivo. Molto più alte
le quote di cittadini che valutano positivamente gli impatti delle politiche contro la
povertà in Svezia (45%), Paesi Bassi (26%), Regno Unito (18%) e Germania
(15%).
Né pensionati, né occupati:
la trappola dei lavoratori anziani
L’età media di effettivo pensionamento nel nostro Paese è di 60,8 anni per gli
uomini e 60,7 anni per le donne. Sono dati che, fatta salva la Francia, dove l’età di
uscita dal mercato del lavoro è pari a 59,4 anni per gli uomini e 59,1 anni per le
donne, rendono il nostro il Paese quello con la più bassa età di pensionamento
effettivo rispetto alla gran parte dei Paesi europei. Attualmente ben il 52% degli
italiani è convinto che ci sono molte persone che vanno in pensione troppo presto,
e questo dato è nettamente superiore a quello medio europeo, che risulta pari al
43%, e a quello di Paesi come Regno Unito (32%), Olanda (34%) e Germania
(42%).
Nel nostro Paese lavorare più a lungo sta diventando sempre più importante anche
per sostenere la condizione economica delle persone. Il 28% degli italiani è molto
preoccupato e il 40% abbastanza preoccupato per il fatto che il proprio reddito in
vecchiaia sarà insufficiente a garantire un livello dignitoso di vita. I due dati sono
nettamente superiori ai valori medi europei, pari rispettivamente al 20% per le
persone molto preoccupate e al 34% per quelle abbastanza preoccupate.
Il 21% degli italiani di età superiore a 18 anni è convinto che sarà costretto ad
andare in pensione più tardi rispetto all’età di pensionamento pianificata, il 20%
pensa che dovrà provare a risparmiare di più per quando sarà in pensione e il 19%
ritiene che la propria pensione sarà inferiore a quanto si aspetta. È un quadro di
incerto pessimismo rispetto al sistema previdenziale, quindi lavorare di più
costituisce la risposta ineludibile per garantire la sostenibilità dei propri conti
familiari. Una netta maggioranza di italiani esprime la propria approvazione per
iniziative specifiche finalizzate a garantire pari opportunità occupazionali sulla
base dell’età: il 23% è completamente d’accordo e un ulteriore 52% abbastanza
d’accordo con l’attivazione di iniziative di questo tipo.
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS 81
Territorio e reti
(pp. 349 – 434 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
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L’inossidabile fiducia delle famiglie italiane
nell’investimento immobiliare
Dopo il lungo ciclo positivo dell’immobiliare, iniziato nella seconda metà degli
anni ’90, durante il quale i volumi di compravendite sono costantemente cresciuti
fino ad avvicinarsi alla soglia di 850.000 scambi all’anno (nel 2006), la fase di
ridimensionamento che ne è seguita sembra essersi conclusa, e si registra una
positiva, anche se limitata, inversione di tendenza. La tradizionale fiducia delle
famiglie italiane nell’investimento nel mattone torna a manifestarsi, tanto da far
prevedere per il 2010, dopo tre anni consecutivi di calo dei volumi, un leggero
progresso nelle compravendite, che possono essere stimate in 630.000 unità
residenziali a fine anno (+3,4% rispetto al 2009) (fig. 1).
Del resto, anche i dati sugli scambi forniti dall’Agenzia del Territorio confermano
questa tendenza: a fronte di una sostanziale stabilità dei prezzi, nel primo semestre
del 2010 le compravendite si sono attestate sulle 312.000 unità, segnando un 4%
in più rispetto al primo semestre del 2009. Un dato in linea con quello di una
recente indagine del Censis, secondo la quale in questo momento l’investimento
in un immobile è considerato il canale preferibile per l’impiego dei risparmi
familiari. Il 22,7% degli italiani ritiene che sia questa la forma di utilizzo dei
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
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propri risparmi da privilegiare, contro il 21,8% che pensa che i risparmi vadano
mantenuti liquidi sul conto corrente e appena l’8,5% che giudica preferibile
acquistare azioni e quote di fondi di investimento. C’è comunque un 39,7% di
italiani che dichiarano di non avere risparmi da utilizzare (fig. 2).
Leva urbanistica e scambio pubblico-privato:
il rischio della deriva immobiliarista
Gran parte dei programmi di intervento che formano l’attuale agenda delle città
italiane si trova a fare i conti, drammaticamente, con la scarsità dei finanziamenti
pubblici. In questa fase di carenza di risorse, le entrate derivanti dagli oneri di
urbanizzazione hanno rappresentato una boccata d’ossigeno per i Comuni: una
dinamica che, indirettamente, ha portato non poche amministrazioni locali a
favorire, per fare cassa, una forte produzione edilizia e un notevole consumo di
suolo.
Naturalmente vi sono modalità di partnership maggiormente collaudate che
pongono, in una certa misura, minori problemi. Ci si colloca nel solco più
ordinario di tale rapporto quando, a fronte di una compartecipazione del mercato
alla realizzazione di una infrastruttura, il rientro dell’investimento per i soggetti
privati cofinanziatori risiede nella gestione diretta dell’opera per un tempo dato.
Ma in relazione alle infrastrutture di mobilità sta prendendo piede anche un altro
modello, che vede come moneta di scambio per recuperare l’investimento
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
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effettuato dal privato non più la gestione dell’infrastruttura, ma la possibilità di
realizzare nuove volumetrie su terreni pubblici o in deroga al piano (tav. 1).
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
88
L’impaludamento dei servizi pubblici di
rilevanza economica: il caso dell’acqua
Non c’è pace nel settore dei servizi pubblici di rilevanza economica. Nonostante
sia oggetto da alcuni anni di una incessante attività di riforma gli utenti sono
cronicamente insoddisfatti, gli investimenti ristagnano, i processi di
modernizzazione restano al palo e non si consolidano sistemi di gestione di tipo
autenticamente industriale.
Il quadro conoscitivo disponibile induce a ritenere che:
- esista una diffusa inefficienza gestionale che si traduce in un aumento della
massa complessiva dell’acqua “lavorata” e dei relativi costi. Tutto ciò si
riverbera evidentemente sulle tariffe per l’utente finale (tab. 10);
- una quota di acqua che potrebbe soddisfare le attese delle utenze in termini di
maggiori disponibilità e consumi, ed essere convogliata verso nuove utenze,
risulta di fatto sottratta alla disponibilità dei gestori;
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
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- nel bilancio complessivo delle risorse idriche le dispersioni giocano un ruolo
non indifferente nel determinare temporanee crisi di scarsità;
- in alcuni ambiti territoriali (soprattutto del Mezzogiorno) il tema delle perdite
sta diventando l’alibi coprente sia per disservizi di diversa natura, sia per
interventi in appalto pubblico spesso non ben meditati nelle caratteristiche
tecniche e nei costi.
I fattori della centralità dell’industria energetica
La valenza sociale di un settore fondamentale della nostra economia produttiva
come quello energetico è spesso poco considerata. Ciò avviene sebbene i benefici
che si originano all’interno della filiera della produzione energetica per il sistema-
Paese per le imprese e per tutti i cittadini sono notevoli, indiscussi, irrinunciabili,
tanto da essere spesso considerati quasi scontati. Del resto, la platea degli utenti è
composta da milioni di cittadini che utilizzano quotidianamente l’energia nelle sue
varie forme e a vari scopi, senza contare gli usi industriali e il terziario, che
peraltro rappresentano voci assai considerevoli. Il settore energetico ha una
notevole rilevanza dal punto di vista occupazionale come da quello della
ricchezza prodotta, e determina ingenti investimenti legati ai continui avanzamenti
tecnologici e al costante sforzo per il miglioramento delle prestazioni (tabb. 12-
13):
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
90
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
91
- assorbe un’occupazione diretta consistente (circa 118.000 addetti) costituita in
sostanza dal personale dipendente delle compagnie, di elevata qualificazione e
specializzazione;
- alimenta alcuni importanti settori collegati, sia industriali (dall’impiantistica
alle costruzioni, dalla siderurgia all’industria elettromeccanica), sia nei servizi
(dalla progettazione ai trasporti, dalla ricerca alla formazione), anch’essi di
elevata specializzazione;
- produce un fatturato annuo rilevante, che supera i 230 miliardi di euro;
- determina importanti investimenti sul territorio (dell’ordine di alcuni miliardi
di euro l’anno), in parte legati all’esigenza di aderire a una normativa tecnica,
ambientale e relativa ai temi della sicurezza, in continua evoluzione;
- produce un gettito considerevole per lo Stato anche in termini di imposte
indirette, quali le accise. Si consideri che solo per il settore autotrasporto nel
2008 ammontano ad oltre 23 miliardi di euro.
Opportunità imprenditoriali e occupazionali
dalla “torsione verde” dell’economia
L’Italia non si colloca certo tra le aree più avanzate in Europa né per quanto
concerne le performance ambientali del sistema-Paese nel suo complesso, né per
la sensibilità per i temi ambientali da parte di cittadini e imprese. Nonostante ciò,
in epoca recentissima sono stati compiuti passi avanti significativi per ciò che
concerne la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Questo fenomeno
induce a ritenere che dallo sviluppo complessivo della green economy possa
provenire un impulso concreto per un rapido rilancio del sistema produttivo
nazionale e per un aiuto immediato alla crescita dell’occupazione.
È fuori di dubbio che il segmento dell’energia rinnovabile, oltre a simboleggiare
la natura intrinseca della green economy, ne rappresenta la componente industriale
più dimensionata e più promettente in termini di sviluppo potenziale. Oggi il
ritmo di crescita delle rinnovabili è decisamente sostenuto e sembra resistere
anche alla congiuntura di crisi (tab. 17). Per di più, al contrario di quanto
accadeva ai tempi d’oro della new economy, a sostenere un trend così positivo è la
crescita di un’industria che non solo rappresenta l’opportunità per la nascita e il
consolidamento di nuove filiere, ma soprattutto un’occasione di riconversione per
imprese e lavoratori che operano in business affini ma assai meno dinamici.
L’energia prodotta in Italia da fonti rinnovabili si approssima ormai al 20% del
totale. La crescita del comparto, alimentata dalle politiche europee e nazionali, è
stata decisamente rapida: in soli quattro anni la produzione di energia da fonti
rinnovabili è aumentata del 39%. Quanto alla distribuzione sul territorio, la
produzione, come anche la potenza degli impianti, si concentra nelle regioni
settentrionali, dove è determinante il contributo della fonte idroelettrica.
44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
FONDAZIONE CENSIS
92
I soggetti economici dello sviluppo
(pp. 435 – 515 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
FONDAZIONE CENSIS
95
Deindustrializzazione competitiva
per guardare oltre la crisi
Dall’inizio della crisi fino ad oggi, l’Italia ha perso 574.000 occupati (giugno
2008-giugno 2010) e le imprese manifatturiere si sono ridotte di oltre 93.000
unità. La riduzione del valore aggiunto ha colpito tutti i comparti produttivi ad
eccezione di quello dell’intermediazione immobiliare. E se in media il decremento
nel Paese è stato del 5,5%, si sono raggiunti a fine 2009 (rispetto all’anno
precedente) livelli molto più preoccupanti nel manifatturiero, con un -14,5%, e nel
commercio, con una riduzione del 9,5%. Mentre oggi gran parte del terziario
appare in recupero (i servizi alle imprese sono cresciuti del 2,2% nell’ultimo anno
e le attività professionali del 3,1%), l’industria tradizionale (-1,9%), il comparto
agricolo (-2,6%) e l’autotrasporto (-1,7%) continuano a registrare ancora nel 2010
un’emorragia di unità produttive che desta notevoli preoccupazioni (fig. 2).
La fenomenologia emergente non si sostanzia tanto nel declino del manifatturiero
tradizionale, quanto in una più complessa deindustrializzazione competitiva,
ovvero in un riposizionamento dell’industria in cui il terziario gioca una parte
rilevante. La crisi sembra avere accentuato la fase espansiva del terziario alle
imprese, se è vero che in comparti come quello della consulenza, della logistica,
della ricerca, dei servizi Ict il numero di imprese ha registrato, a metà del 2010,
incrementi intorno al 5% rispetto all’anno precedente. L’esistenza di un’influenza
FONDAZIONE CENSIS
96
reciproca tra terziario e industria è messa chiaramente in evidenza dall’andamento
molto simile tra il valore aggiunto dei due comparti. Questi dati vengono
diffusamente interpretati come l’effetto generato dalla domanda di servizi
avanzati da parte delle imprese manifatturiere, tale per cui all’incorporazione dei
primi corrisponde una crescita e un miglioramento competitivo delle seconde.
Esiste, dunque, un circolo virtuoso di alimentazione reciproca, che dovrebbe
ormai essere assunto come chiave di lettura dei processi di trasformazione.
Vale la pena chiedersi, però, quanto il sistema-Paese stia puntando sulla
componente più avanzata del terziario. Sebbene il peso del valore aggiunto dei
servizi alle imprese (logistica, magazzinaggio, servizi Ict, servizi di ricerca,
noleggio macchine, attività di consulenza e professionali) sia costantemente
cresciuto negli ultimi anni, l’Italia resta abbastanza lontana dai principali Paesi
europei che continuano ad investire in tal senso.
L’inesauribile protagonismo dei distretti industriali
Ci sono ormai tutte le condizioni affinché i distretti industriali tornino ad essere
protagonisti importanti dello scenario produttivo nazionale, ancora debole, ma in
fase di ripresa. Nel primo trimestre del 2010 la flessione delle esportazioni di oltre
100 distretti produttivi è notevolmente rallentata (in termini tendenziali, pari a -
0,9%), mentre nel secondo trimestre si è finalmente registrato un incremento del
13,8%: un segnale incoraggiante dopo un lungo periodo di arretramento sui
mercati esteri. Tutti i comparti distrettuali, dalla meccanica alla moda, dagli
elettrodomestici ai prodotti per la casa e i prodotti in metallo, si sono riportati in
terreno positivo, sebbene la ripresa appaia per il momento fragile (fig. 5).
Si afferma da tempo che il modello distrettuale classico dovrebbe essere ripensato.
Spesso, tuttavia, il dibattito non tiene conto che i distretti industriali di più solida
tradizione hanno sempre mostrato l’intrinseca capacità di adattamento agli eventi.
Prova di tale capacità di cavalcare il cambiamento si manifesta nel presidio
sempre più forte dei mercati emergenti e ad alto potenziale di sviluppo dell’Asia e
del Medio Oriente, in cui i distretti riescono ancora a mantenere marginalità
crescenti. Se nei mercati di sbocco tradizionali, quali l’Europa e il Nord America,
ancora agli inizi del 2010 si registra un sostanziale arretramento (nei primi tre
mesi dell’anno le esportazioni distrettuali in Germania si sono ridotte del 2%, in
Francia dell’1,7%, negli Stati Uniti dell’1,1%), in Cina, nel medesimo periodo, le
esportazioni sono aumentate di quasi il 22%, ad Hong Kong del 28,8%, in India
del 51,8% e negli Emirati Arabi Uniti del 15,8%. La Cina è balzata al settimo
posto come area di esportazione dei distretti industriali italiani.
FONDAZIONE CENSIS
97
Pur nella complessità generale del quadro economico, dunque, i distretti mostrano
un atteggiamento proattivo, ovvero esprimono capacità di reazione alle difficoltà,
proponendo strategie di mercato e produttive nuove. Questa capacità di reazione
alle difficoltà emerge con chiarezza dall’analisi dei nuovi orientamenti messi in
campo negli ultimi mesi. Già alla fine del 2009, una rilevazione presso poco più di
100 imprenditori operanti in 18 differenti distretti industriali realizzata dal Censis
e dalla Federazione dei distretti italiani metteva in evidenza un sostanziale
cambiamento del paradigma delle strategie: dalla focalizzazione sulla qualità del
prodotto e sulla maggiore efficienza interna, molti imprenditori stanno passando
al maggiore investimento nelle strategie di presidio dei mercati e alla migliore
comprensione delle esigenze dei clienti, anche i più lontani. Tra i principali
obiettivi indicati dagli intervistati figura il potenziamento e il miglioramento delle
strategie commerciali, il rafforzamento della presenza all’estero, il miglioramento
della dotazione tecnologica e l’allargamento del mercato di riferimento anche
attraverso la diversificazione dei prodotti (fig. 7).
FONDAZIONE CENSIS
98
La metamorfosi dei terziari
Nel progressivo mutamento dello scenario indotto non solo dalla crisi economica,
ma anche da trasformazioni settoriali di più lunga deriva, sembra assumere una
crescente rilevanza il riposizionamento del terziario italiano. Per la complessità
intrinseca e per la varietà dei modelli di business che si vanno profilando, sarebbe
più opportuno parlare oramai di “terziari”, piuttosto che di un terziario tout court.
In tal senso, è possibile identificare in così diversi percorsi di metamorfosi una
matrice comune costituita da tre leve che agiscono con maggiore o minore
intensità nei processi di trasformazione (tav. 1):
- l’emergere e il diffondersi di nuove esigenze e di modelli di consumo che
spingono soprattutto le attività di servizio tradizionale a espandersi (come nel
caso dei servizi alla famiglia) e a trovare nuovi approcci al mercato e percorsi
di crescita (come nel commercio e nel turismo);
- il rafforzamento della commistione tra industria e servizi, che non svolge più
un mero ruolo di supporto alla manifattura. I due settori ormai vivono un
rapporto di simbiosi piuttosto che di contrapposizione;
- l’innovazione tecnologica, che rappresenta ormai una leva per la competitività
tanto per l’industria, quanto per la larga maggioranza dei segmenti del
terziario.
FONDAZIONE CENSIS
99
FONDAZIONE CENSIS
100
In particolare, l’innovazione rappresenta il vero driver della trasformazione nei
comparti del terziario avanzato. La capacità innovativa della componente più
avanzata del terziario risulta superiore alla media del comparto manifatturiero. In
particolare, si tratta dell’intermediazione finanziaria e di quella parte del terziario
maggiormente connessa all’industria, ovvero i servizi legati all’Ict, alla ricerca ed
all’attività consulenza alle imprese. D’altra parte, anche considerando un altro
indicatore della capacità innovativa, ovvero il capitale Tic (la parte di risorse
umane che fanno ricorso, in ciascun comparto, all’uso delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione), gran parte dei servizi si pongono al di
sopra dell’industria.
Appare, dunque, ormai superata l’idea che l’innovazione sia prerogativa delle
imprese manifatturiere. Anzi, il terziario risulta essere proprio il volano tramite il
quale l’industria stessa si modernizza: utilizzando sempre più intensamente servizi
ad elevato contenuto di tecnologia, innovando grazie all’attività di ricerca e
sviluppo, rendendo più efficienti i processi grazie all’Ict e alle funzioni logistiche
più sofisticate. E se da un lato il terziario diviene un vettore dell’innovazione
industriale, dall’altro la domanda di servizi sempre più sofisticati da parte delle
imprese manifatturiere alimenta la modernizzazione del terziario stesso.
Logistica intermodale per far crescere il Paese
Godere di un supporto logistico all’avanguardia appare sempre più una necessità.
Tuttavia, da questo punto di vista in Italia la situazione non è delle più brillanti.
Una serie di non scelte sembra avere in una certa misura ingessato le opportunità
di cambiamento e di crescita del comparto. Particolarmente vulnerabile è il settore
dell’autotrasporto, in massima parte costituito da aziende di modeste dimensioni
in grado di sopravvivere esclusivamente grazie a un sistema di sovvenzioni.
Un’efficace politica alternativa deve basarsi su una chiara scelta delle priorità per
il Paese e su regole e interventi che promuovano lo sviluppo di soluzioni
intermodali.
Tra i principali Paesi europei l’Italia è uno di quelli in cui negli anni pre-crisi il
trasporto di merci su rotaia è aumentato maggiormente, con una crescita media
annua per il periodo 2004-2008 del 3,5%, inferiore soltanto a quella di Germania
e Austria. I traffici intermodali, inoltre, raggiungono un’incidenza sul trasporto
ferroviario complessivo pari al 45,1%, la più alta d’Europa. Ciò, indubbiamente, è
stato possibile grazie a una rete di strutture interportuali e di terminal intermodali
in espansione, che ha dimostrato di saper essere efficiente e competitiva –
soprattutto nelle regioni settentrionali. Tuttavia, non mancano elementi di
debolezza e fattori di criticità che impediscono di trasformare il concetto di “Italia
piattaforma logistica del Mediterraneo” da retorica priva di fondamento (quale
sembra attualmente) a effettiva prospettiva di sviluppo.
FONDAZIONE CENSIS
101
Tra il 2004 e il 2009 il Gruppo Fs ha perso il 41,1% del traffico, passando da 76 a
44 milioni di tonnellate. Tradotto in termini di quote di mercato sulla quantità di
merci movimentate, si stima che il Gruppo Fs passi dal 90,4% del 2004 al 58,3%
del 2009, con un’erosione di 32 punti percentuali in cinque anni (fig. 16).
Inoltre, i mancati investimenti a favore dello sviluppo dei traffici intermodali nei
porti italiani ha fatto sì che l’Italia sia stato il Paese europeo che è riuscito meno a
intercettare l’importante incremento del traffico container verificatosi tra il 2004 e
il 2008 (fig. 15). Se tale crescita fosse stata paragonabile a quella media
dell’Europa occidentale (ossia al 36%), nel 2008 i porti italiani avrebbero
movimentato 2,4 milioni di unità di carico in più rispetto a quante ne sono state
effettivamente trasportate. Ciò ha portato ad una perdita in termini di fatturato
compresa tra i 700 milioni di euro (nel caso in cui tutti i container fossero soltanto
in transito) e i 5,5 miliardi di euro (nel caso in cui tali container fossero anche
“lavorati” in Italia), e a una mancata occupazione compresa tra 11.000 e 99.000
unità.
FONDAZIONE CENSIS
102
Per una nuova politica di sostegno
alle imprese e ai localismi
Ritorna d’attualità il dibattito sulla necessità di rivedere il sistema complessivo
degli incentivi alle imprese, sia nella forma diretta degli automatismi che,
soprattutto, in quelli che hanno come base la concertazione tra le forze locali,
come gli interventi della programmazione negoziata. Le politiche di incentivo
attuate negli ultimi anni si sono, ancora una volta, molto focalizzate sul sostegno
all’acquisto di capitale tecnico (macchinari, attrezzature o finanziamento di
progetti di fattibilità), piuttosto che sul riequilibrio di punti assai deboli, come
l’acquisizione e il trasferimento di innovazioni di processo, il rafforzamento della
struttura logistica dell’impresa, la propensione a incorporare nel processo
produttivo maggiori livelli di servizi avanzati. Eppure, le risorse destinate negli
ultimi anni per le politiche a sostegno delle imprese appaiono consistenti. Per
avere un ordine di grandezza, è opportuno ricordare che tra il 2000 e il 2008 le
agevolazioni alle imprese concesse dallo Stato e dalle amministrazioni regionali
hanno superato gli 88 miliardi di euro, con una spesa media annua, in termini di
agevolazioni concesse, di 11 miliardi di euro.
FONDAZIONE CENSIS
103
Colpisce la difformità tra il Centro-Nord e il Sud della tipologia di agevolazioni
concesse. Nelle regioni meridionali il 23% dei finanziamenti pubblici è destinato
ad attività di innovazione, ricerca industriale e trasferimento tecnologico, mentre
nel Centro-Nord a tali attività è destinato ben il 57% delle agevolazioni concesse
tra il 2000 e il 2008, a cui si aggiunge il 12% di incentivi per l’export e
l’internazionalizzazione (fig. 18).
Sembra essere giunto il momento di rivedere la molteplicità delle politiche a
sostegno delle imprese e dei localismi:
- gli incentivi alle imprese devono essere riorientati e finalizzati a sostenere in
misura maggiore, rispetto a ciò che oggi accade, l’innovazione organizzativa e
tecnologica delle singole strutture produttive;
- è opportuno ridisegnare profondamente strumenti come quelli della
programmazione negoziata, che se nel Nord hanno rappresentato un’esperienza
felice di sostegno diffuso alle imprese e di supporto al maggiore radicamento di
queste ultime nel territorio, al Sud hanno rappresentato un intervento piuttosto
debole, il più delle volte incapace di innescare i cambiamenti radicali posti
come obiettivo.
FONDAZIONE CENSIS
104
Nuova dinamica dei consumi
fine di un ciclo o semplice pausa di riflessione?
Nonostante alcuni segnali di ripresa percepibili nel corso del 2010, dalla metà del
2008 è iniziata una fase di complessivo deterioramento della situazione
economica che rischia di avere serie conseguenze sul tenore di vita e sulle
abitudini di consumo delle famiglie italiane.
A partire dal secondo trimestre del 2008, la riduzione dei risparmi si accompagna
a una sensibile contrazione dei consumi (fig. 23). Se nella maggioranza dei casi (il
51%) le famiglie si sono limitate a ridurre gli sprechi, non pochi (il 24%) sono
coloro che si dichiarano costretti a rinunciare a prodotti o servizi giudicati
essenziali. In tutti i segmenti del tessuto socio-economico del Paese, nell’ultimo
anno si sono messi in atto comportamenti più parsimoniosi, riducendo pranzi e
cene fuori casa (il 60,4% delle famiglie), comprimendo le spese per lo svago (il
56,9%) e perfino modificando le abitudini alimentari (il 38,1%).
È soprattutto per gli acquisti più impegnativi che si assiste a una generale
tendenza a temporeggiare. Ciò ha portato alla fine del ciclo espansivo legato
all’utilizzo degli strumenti di credito al consumo, che nel primo semestre del 2010
subiscono una contrazione in valore del 4,7% rispetto allo stesso periodo
dell’anno precedente. Si assiste ad un calo del 2,4% nel numero dei prestiti
personali erogati, del 2,1% in quello dei prestiti finalizzati all’acquisto di
FONDAZIONE CENSIS
105
determinati beni e del 6,3% nelle operazioni di cessione del quinto dello stipendio.
Una tendenza che trova conferma anche nell’ambito delle piccole spese, come
quelle effettuate mediante carte di credito. Nonostante una maggiore diffusione
rispetto agli inizi del 2009 (+0,2%), anche in questo caso l’importo complessivo
delle operazioni ha subito una flessione del 3,7%. La percentuale di famiglie che
utilizzano il credito al consumo si è ridotta dal 17,8% di inizio 2009 al 14,8% di
inizio 2010, per poi aumentare leggermente nel corso dell’anno, attestandosi al
16,9%.
Le dinamiche di consumo delle famiglie rappresentano il principale volano
dell’economia nazionale. Dalla spesa per consumi nel 2009 dipende il 61% del
Pil. Un loro rilancio costituisce quindi un elemento determinante per garantire una
complessiva ripresa del sistema produttivo. In tal senso, è incoraggiante osservare
un progressivo e diffuso miglioramento della situazione nel corso dell’anno. In
particolare, è il 23,8% delle famiglie che prevede un aumento dei propri consumi
per il secondo semestre del 2010, mentre soltanto il 7,7% ritiene che subiranno
un’ulteriore contrazione. All’inizio del 2009 emergeva uno scenario molto meno
incoraggiante, con appena il 19,1% delle famiglie che dichiarava prospettive di
spesa crescenti contro il 13,6% che immaginava una contrazione degli acquisti.
Comunicazione e media
(pp. 519 – 571 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
FONDAZIONE CENSIS
109
Il futuro della rete, tra sicurezza delle transazioni
e gratuità dei contenuti
Il futuro della rete dipenderà dal modo in cui verranno sciolti due nodi rimasti ad
oggi non del tutto risolti: i problemi di sicurezza delle transazioni attraverso il
web e la questione riguardante la totale gratuità o meno dei contenuti reperibili in
rete.
Al momento, solo il 43% degli italiani che utilizzano Internet si dice pienamente
fiducioso in merito alla sicurezza delle transazioni on line (per il 5% sono del tutto
sicure, abbastanza sicure per il 38%): un dato nettamente più basso del 58%
medio rilevato a livello europeo.
In effetti, non è trascurabile la quota di utenti che hanno incontrato in passato o
sperimentano attualmente qualche problema legato alla navigazione in Internet da
casa. Il 64% lamenta di ricevere una quantità eccessiva di spam (la posta
indesiderata, dietro la quale si cela non di rado il rischio di un raggiro). Al 58% è
capitato che il proprio computer fosse “infettato” da un virus informatico, con
conseguente danneggiamento dei file (dato sensibilmente più elevato della media
europea, pari al 46%). A seguire, vi sono problemi via via meno frequenti. L’8%
degli utenti si è imbattuto in incidenti relativi alla violazione della privacy; il 4%
ha subito un’attività botnet, cioè persone male intenzionate hanno preso il
controllo del computer in modalità remota; il 3% denuncia problemi legati alla
sicurezza dei minori, ad esempio il fatto che i propri bambini siano finiti in siti
web inappropriati o siano entrati in contatto con persone non raccomandabili e
potenzialmente pericolose; il 2% è stato vittima di phishing, cioè è stato ingannato
da truffatori che si sono appropriati dei suoi dati personali (tab. 2).
Può risultare rassicurante sapere che il 96% di chi utilizza Internet da casa si è
dotato di tecnologie standard per garantire la sicurezza della navigazione
(antivirus, antispam, firewall, ecc.); meno confortante è il fatto che tra le
principali precauzioni adottate vi sia anche quella di evitare le transazioni
finanziarie on line (e-commerce, e-banking, ecc.), come dichiara il 55% degli
FONDAZIONE CENSIS
110
utenti (un dato ancora una volta più alto di quello medio europeo, pari al 42%)
(tab. 3).
Venendo al secondo nodo irrisolto indicato − la totale gratuità o meno dei
contenuti disponili in Internet −, non si può non ricordare come dopo gli anni
dell’entusiastica accoglienza di Internet e del web 2.0 si è acceso un grande
dibattito sulla opportunità della condivisione gratuita dei contenuti tramite
piattaforme come, ad esempio, Google e YouTube. Secondo alcuni finiscono per
sottrarre risorse alla creatività professionale e artistica, a causa della
standardizzazione dei formati e delle modalità di produzione e godimento dei
contenuti, con il rischio di causare un livellamento delle capacità e delle
sensibilità, un appiattimento verso il basso, in definitiva un impoverimento
culturale.
Secondo una indagine del Censis, per la grande maggioranza dei cittadini che
utilizzano la rete (complessivamente, più di 7 su 10) non è giusto che sia l’utente a
pagare i contenuti di informazione disponibili in Internet. Prevale cioè l’abitudine
a trovare gratis sui siti web le notizie, gli approfondimenti e i commenti che
l’utente desidera o di cui ha bisogno (fig. 1).
Più precisamente, per il 64,2% del campione la forza della rete sta proprio nella
piena libertà dell’utente, che verrebbe incrinata dalla richiesta di corresponsioni in
caso di accesso ad alcuni specifici siti. L’11,8% del campione, però, pur essendo
contrario all’introduzione del pagamento da parte dell’utente, riconosce il
problema che molti editori hanno già sollevato, anche presso le autorità
regolatorie, sostenendo che dovrebbero essere Google e gli altri aggregatori di
notizie digitali a condividere i loro profitti con i produttori dei contenuti, dal
momento che grazie alle inserzioni pubblicitarie monetizzano il traffico generato,
in ultima analisi, proprio da quei contenuti. In questo caso, tra i giovani di 25-34
anni il dato favorevole sale al 14,3%.
FONDAZIONE CENSIS
111
Vi è però quasi un quarto del campione (complessivamente, il 24% di chi utilizza
Internet) che è invece favorevole al superamento dell’opzione “tutto gratis”. Il
14,9% si dice disposto ad accettare il pagamento, da parte dell’utente, dei
contenuti di informazione reperibili sul web attraverso il meccanismo dei
micropagamenti, per tutelare il copyright. Tra i laureati il consenso al meccanismo
dei micropagamenti sale al 20,1%. Il 9,1%, infine, si dimostra consapevole che la
garanzia della libertà di informazione dipende anche da bilanci sani degli editori −
oggi in affanno −, i quali dovrebbero quindi poter trarre qualche profitto dalle
versioni digitali del loro lavoro, oggi liberamente accessibili sul web.
Fuga dalle notizie:
la cattiva informazione smorza l’audience
Il confronto dei dati di ascolto dei telegiornali serali nazionali tra settembre 2009
e giugno 2010 evidenzia un calo da 18.333.000 a 14.968.000 telespettatori
complessivi, con una perdita di audience superiore a 3 milioni (-3.365.000 per
l’esattezza). A diminuire in misura maggiore è stato l’ascolto del Tg5 e del Tg1,
con una perdita di circa un milione di telespettatori ciascuno (rispettivamente -
1.332.000 e -1.117.000). Il confronto settembre 2009-settembre 2010 è altrettanto
inesorabile: il Tg1 perde il 3,3% di share e 441.000 telespettatori; anche peggio
va al Tg5, che registra una media del 21,1% di share e 4.601.000 telespettatori,
arretrando di 5 punti di share e di 813.000 telespettatori.
FONDAZIONE CENSIS
112
Secondo l’Agcom, nel mese di settembre 2010 il Tg1 e il Tg5 hanno concesso
molti più minuti al Pdl (il Tg1 il 35,8% del tempo totale contro il 17,3% al Pd, con
un’ora e mezza di differenza; il Tg5 il 30,7% contro il 23%, con una differenza di
37 minuti). Il Tg4 dedica 2 ore in più al Pdl (il 58,6% del tempo al Pdl contro
l’11,8% al Pd), mentre il Tg3 dedica il 21% del tempo al Pd e il 27% al Pdl (con
quasi un’ora di differenza tra i due a favore del Pdl per via della vicenda Fini-
Tulliani) (tab. 6).
Il dato delle reti ammiraglie fa sì che il pendolo dell’informazione si sia inclinato
molto più da una parte che dall’altra. In totale, in un mese i notiziari Rai hanno
dedicato 7 ore e 51 minuti al Pdl e 5 ore e 10 minuti al Pd (cioè 2 ore e 40 minuti
in meno). Una differenza ancora più marcata si è determinata sulle reti Mediaset,
con 5 ore e 48 minuti per il Pdl (il 40,5% dei minuti totali) e 2 ore e 38 minuti a
favore del Pd (il 18,5%), con un divario di più di 3 ore. Lo sbilanciamento nello
spazio concesso alle notizie di una parte piuttosto che dell’altra può aver
provocato il distacco di una porzione degli ascoltatori.
Secondo le rilevazioni dell’Ads, tra giugno 2009 e giugno 2010 anche tutti i
principali quotidiani nazionali hanno perso terreno, fatta eccezione per “Il
Giornale” (+5,4% di copie diffuse) (tab. 7).
FONDAZIONE CENSIS
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Leggere nel futuro:
il digitale sorpasserà il cartaceo?
Nell’ultimo anno il mercato librario digitale americano ha avuto una notevole
espansione: mentre nel 2009 l’e-book costituiva solo l’1,5% del mercato, le stime
per il 2010 indicano una quota del 5%, più del triplo rispetto all’anno precedente.
Un’accelerazione è prevista anche in Italia, dove, in base ai dati diffusi dall’Aie
(l’Associazione degli editori), si prevede una quota di mercato dello 0,1% al
dicembre 2010, pari ad oltre 3,4 milioni di euro. La fetta di mercato è ancora
molto piccola, ma è triplicata rispetto allo 0,03% del dicembre 2009 (tab. 8).
Dai dati emerge, inoltre, la flessione del mercato editoriale nel suo insieme (-7,1%
tra il 2006 e il 2009, -5,3% dal 2008 al 2009) e nel contempo la forte crescita delle
FONDAZIONE CENSIS
114
vendite on line, che rappresentano il 21,7% del mercato digitale: +94,4% tra il
2006 e il 2009, +11,9% tra il 2008 e il 2009, con ricavi superiori a 100 milioni di
euro.
Anche i primi mesi del 2010 sono positivi: rispetto al giugno del 2009, le librerie
on line fanno registrare un incremento dell’attività del 24,5%. Nel comparto
dell’editoria digitale, sono in diminuzione cd rom e dvd (-24%), mentre il segno è
sempre positivo per banche dati e altri servizi Internet (+61,5% tra il 2006 e il
2009, +30% tra il 2008 e il 2009).
Sul fronte dei titoli, nel 2009 i libri elettronici pubblicati sono stati 685, per un
totale di 2.257 opere disponibili sul mercato. I dati provvisori forniti dall’Aie per
l’anno 2010 (aggiornati a settembre) mostrano una produzione pari a 945 titoli
(+38%), raggiungendo così un totale di 3.202 titoli elettronici disponibili nel
nostro Paese (+41,8%). Si prevede un raddoppio entro la fine dell’anno, per un
totale di quasi 7.000 titoli in italiano, corrispondenti al 2% dei titoli
“commercialmente vivi” (cioè letteratura scientifica esclusa).
Analizzando i dati sui quotidiani più seguiti nel web, emerge che tra il primo e il
secondo trimestre del 2010 i visitatori Internet nel giorno medio sono aumentati
quasi per tutti, fatta eccezione per i quotidiani sportivi. Subisce una flessione il
Corriere della Sera, mentre il Messaggero registra l’aumento più consistente
(+23,8%). Pur non potendo escludere la sovrapposizione tra i visitatori dei siti on
line e i lettori della stampa cartacea, emerge che gli utenti Internet rappresentano
per alcune testate una significativa percentuale del totale dei lettori: il 19,6% per
Repubblica, il 18,2% per Il Sole 24 Ore, il 15,1% per il Corriere (tab. 9).
FONDAZIONE CENSIS
115
L’informazione medica corre sempre più sul web
Dall’indagine del Censis in merito ai principali canali utilizzati dagli italiani per
informarsi sui temi legati alla salute si evince che il medico gode sempre di
un’ampia considerazione: ricorre al medico di famiglia per accedere a una
comunicazione diretta il 20,3% del campione (dato che sale al 31,1% tra i soggetti
meno istruiti), il 2,5% si rivolge al medico specialista e il 2,3% al farmacista. C’è
poi il passaparola tra amici, colleghi e parenti, indicato come il mezzo principale
per acquisire le informazioni dal 18,7% degli intervistati. Ma la prima fonte di
informazione è la televisione, secondo il 42,9% delle opinioni raccolte, il 25,8%
degli italiani le cerca in giornali e riviste. Va sottolineato, però, che il 12,6% degli
italiani individua in Internet il primo strumento a cui ricorrere per informarsi su
tematiche mediche. In quest’ultimo caso è determinante la variabile del titolo di
studio, perché il web è la principale fonte di informazione sanitaria per il 17,8%
dei laureati (tab. 10).
Se però si valuta un uso più generico di Internet in relazione alla propria salute −
in questo caso non si è considerato il web come principale fonte di informazione
in materia sanitaria −, il dato degli utilizzatori sale al 34% degli italiani: un dato
FONDAZIONE CENSIS
116
estremamente variabile in base ai livelli di istruzione, oscillando tra il 5,4% dei
soggetti con la sola licenza elementare fino ad oltre il 45% di coloro che sono in
possesso del diploma o della laurea.
Il 29,5% usa Internet per cercare informazioni su patologie specifiche, il 18,4%
per trovare informazioni su medici e strutture a cui rivolgersi. Inoltre, il 2,1% (e il
dato è sensibilmente più alto tra i soggetti laureati, arrivando al 7,4%) frequenta
forum on line, chat, blog e consulta altre communities di pazienti per scambiare
informazioni e pareri. A questi comportamenti vanno sommati anche altri
comportamenti funzionali, come l’abitudine a prenotare visite specialistiche e
analisi mediche via Internet, che riguarda il 5,3% degli italiani (e il 9,5% dei
laureati), o l’acquisto di farmaci on line, praticato dall’1,9% del campione (fig. 4).
Le responsabilità sociali dei medi
e l’opacità delle norme
La famiglia è sempre meno in condizione di assolvere alla sua funzione educativa,
come pure la scuola. L’accelerazione tecnologica e l’evoluzione dei media
rendono la triangolazione “famiglie, minori, media” ancora più complessa.
Il 18,2% dei minori utilizza il Pc da solo in casa (tab. 13). Va evidenziato che le
differenze tra i bambini e i ragazzi di 3-17 anni dovute al titolo di studio dei
genitori sono molto forti: in generale, ha usato il Pc negli ultimi 3 mesi il 64,9%
FONDAZIONE CENSIS
117
dei bambini e dei ragazzi con almeno un genitore laureato rispetto al 34,6% di
quelli con genitori con al massimo la licenza elementare. Dunque, i bambini e i
ragazzi con genitori con titoli di studio bassi sono svantaggiati sia nell’uso a casa
sia nell’uso combinato casa-scuola, a dimostrazione del fatto che la scuola non
riesce a colmare il profondo divario dovuto a uno svantaggio sociale.
Appare evidente che esiste un problema di agenda che riguarda una politica
culturale per le nuove generazioni: se è vero che i più giovani sono digital natives,
è altrettanto vero che non si può lasciarli a se stessi e alle loro esili capacità di
discernimento. È necessario ripensare complessivamente la possibilità per genitori
e insegnanti di interagire con i contenuti in cui si imbattono attraverso i media, i
quali sono un formidabile strumento di evoluzione se ben gestiti.
Governo pubblico
(pp. 573 - 620 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
FONDAZIONE CENSIS
121
L’apnea della finanza pubblica
La Decisione di finanza pubblica presentata dal Governo per gli anni 2011-2013
affronta in maniera realistica il medio periodo, puntando necessariamente a
consolidare la certezza del prelievo e contemporaneamente a qualificare al meglio
la spesa in maniera tale da inserire, in un contesto tutt’altro che facile, elementi di
spinta alla nuova crescita e strumenti in grado di facilitare la ripresa produttiva.
La base di partenza di tutte le riflessioni sui prossimi anni è data dalla previsione
sull’andamento del Pil. Secondo la Dfp, il rimbalzo rispetto a ciò che è accaduto
nel biennio 2008-2009 potrebbe, già a partire da quest’anno, orientarsi verso un
incremento dell’1,2%, riportando uno degli indicatori chiave come il rapporto fra
debito pubblico e Pil intorno al 115% nel 2013 (dopo un picco, atteso per il 2011,
del 119,2%), anno in cui in termini assoluti l’ammontare del debito sfiorerebbe in
ogni caso i 2.000 miliardi di euro (tab. 1).
Il percorso di rientro progressivo può essere osservato dall’andamento
dell’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche italiane; fra inizio e fine
periodo il saldo finale fra entrate e uscite complessive dovrebbe dimezzarsi e,
seppure negativo, tale saldo dovrebbe attestarsi al di sotto dei 40 miliardi di euro.
FONDAZIONE CENSIS
122
Non sarà soddisfatta l’attesa per una riduzione della pressione fiscale, la quale si
manterrà costantemente al di sopra della soglia del 42%: la manovra complessiva
si dispiega nell’intreccio fra maggiori entrate e minori uscite, e gli effetti finali si
orientano verso la riduzione dell’indebitamento secondo un ammontare di diverse
decine di miliardi.
Nel dettaglio, emergono i principali interventi di qualificazione della spesa, che
dovranno portare:
- a una riduzione del perimetro e del costo della Pubblica Amministrazione per
un valore previsto che supera i 6 miliardi di euro (riduzione spese rimodulabili,
soppressione di enti pubblici);
- a una riduzione dei costi politici e amministrativi per 181 milioni di euro nel
2010 e 39 milioni nel 2013;
- al contrasto all’evasione fiscale e contributiva, dal quale ci si attende un forte
recupero soprattutto a partire dal 2011 con un importo complessivo superiore ai
21 miliardi di euro (tab. 2).
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123
FONDAZIONE CENSIS
124
La Pubblica Amministrazione
possibile volano per l’innovazione
Il piano e-Gov 2012, lanciato a gennaio 2009, definisce un insieme di progetti di
innovazione digitale che si propongono di modernizzare, rendere più efficiente e
trasparente la Pubblica Amministrazione italiana, e migliorare la qualità dei
servizi erogati a cittadini e imprese. Il Ministero per la Pubblica Amministrazione
e l’Innovazione ha deciso di puntare su tre aree prioritarie: scuola, sanità e
giustizia; nonché su tre obiettivi settoriali: sistema pubblico di connettività,
rapporti tra Pa e cittadino e dematerializzazione.
Su scuola e università il processo è avviato: al 31 luglio le scuole connesse in rete
risultavano 4.000 (il 12,2% delle 32.712 scuole presenti in Italia) e da un anno è
attivo il portale “ScuolaMia” che offre un interessante servizio alle famiglie: dalla
pagella digitale alla segnalazione di assenze, fino al registro elettronico e ai
certificati on line.
Il Fascicolo sanitario elettronico si prospetta come una innovazione epocale per il
comparto sanitario: secondo il piano, la storia clinica di ogni cittadino sarà
disponibile in formato digitale e in rete con il Sistema sanitario nazionale. Allo
stato attuale sono state gettate le fondamenta del processo con la predisposizione
di linee guida e il lancio della sperimentazione sull’interoperabilità del fascicolo
sanitario elettronico in collaborazione con dieci amministrazioni regionali.
Sul versante della dematerializzazione, un ruolo centrale è svolto dalla casella di
posta elettronica certificata (Pec), così come la rilevazione della customer
satisfaction sul fronte del rapporto tra cittadini e Pubblica Amministrazione. Più
di 267.000 cittadini italiani hanno richiesto una casella di posta certificata, ma non
tutte le amministrazioni pubbliche ne sono provviste. A luglio di quest’anno le
imprese dotate di Pec ammontavano invece a poco più di 400.000 (circa il 10%
delle imprese italiane). Sempre a luglio risultavano in possesso di Pec circa un
milione di professionisti, praticamente la metà di quanti iscritti agli Ordini.
Nei rapporti tra cittadino/utente e Pa, va segnalata la sperimentazione promossa
dal Dipartimento della funzione pubblica per un sistema di rilevazione della
customer satisfaction. L’iniziativa, denominata “Mettiamoci la faccia”, è stata
avviata nel marzo del 2009 e si propone di offrire ai cittadini la possibilità di
esprimere un giudizio sulla qualità dei servizi ricevuti attraverso l’uso di
interfacce emozionali (emoticons). A settembre 2010 si conta l’adesione di 230
amministrazioni tra centrali, locali ed enti di previdenza, con 1.429 sportelli sparsi
su tutto il territorio nazionale e più di 4 milioni di giudizi (lusinghieri in oltre il
90% dei casi) espressi dagli utenti in merito alla qualità dei servizi ricevuti.
FONDAZIONE CENSIS
125
Le università spingono la R&S
anche a favore delle imprese
Nella sostanziale permanenza di una (bassa) crescita senza ricerca che
contraddistingue le imprese italiane, un ruolo importante può essere giocato dalle
università e dai centri di ricerca, che stanno facendo buon viso alla scarsità di
risorse pubbliche provando a far da soli, anche nella creazione di imprese ad alto
tasso di innovazione.
L’importo dei fondi per la ricerca delle università appare in crescita costante
(+69,6% negli anni 2004-2008) e sempre meno dipendente dai fondi pubblici. In
riferimento alla provenienza dei fondi per la ricerca si evidenzia l’incidenza dei
contratti di ricerca e consulenza (R&C) e dei servizi tecnici finanziati da terzi,
cresciuta progressivamente fino a diventare la singola quota più rilevante (27,4%),
dopo aver superato il peso dei fondi provenienti dal governo centrale (23,8%)
(fig. 3).
Negli ultimi anni, le università italiane, con diversa intensità di sforzi ed efficacia,
hanno profondamente innovato le proprie strutture organizzative per presidiare
l’interfaccia con l’industria. Nel medio-lungo periodo l’obiettivo è stato la
costruzione di un portafoglio selezionato di brevetti, di contratti e/o accordi
commerciali per la loro valorizzazione, di nuove imprese (start-up o spin-off) che
possano portare sul mercato la proprietà intellettuale generata.
FONDAZIONE CENSIS
126
Dal 2000 a oggi le imprese spin-off gemmate dalle università hanno subito un
forte incremento: nel corso degli ultimi nove anni il numero si è quintuplicato
(806 nel 2009) e circa l’80% è localizzato nelle regioni dell’Italia centrosettentrionale
(fig. 4).
L’europeismo fideistico degli italiani
Nel 1999 l’appartenenza all’Europa era vista con favore dal 60% degli italiani,
dieci anni dopo la percentuale scende al 49% (fig. 5). Siamo dunque passati da un
euroentusiasmo a un euroscettiscismo? Una recente indagine del Censis conferma
un’Italia divisa, con un Nord che si sente più profondamente europeo, un Centro
più incerto e un Sud dove più netta appare l’identità mediterranea (tab. 4).
Permane un’immagine quasi astratta della comunità europea e delle ragioni
dell’appartenenza comunitaria, dove sono i valori ideali ad essere privilegiati più
delle concrete conseguenze economiche e sociali. Per gli italiani l’Europa non è
un’arena in cui le nazioni confrontano e risolvono i propri interessi e i loro
conflitti. Al contrario, è vista come se fosse da “qualche altra parte”: non ben
definita, distante, autonoma. Malgrado ciò, quello che alimenta il nostro
europeismo è un’idea quasi messianica: solo l’Europa ci può salvare.
FONDAZIONE CENSIS
127
E così, anche se confessiamo la nostra ignoranza (non sappiamo bene cosa sia e
come funzioni l’Europa), nonché la nostra distanza dalle istituzioni europee,
continuiamo a fidarci di più di quest’ultime che di quelle nazionali (fig. 6). Ci
sentiamo (ancora e malgrado tutto) europei perché abbiamo poca fiducia nel
sistema politico e nelle istituzioni nazionali. L’idea di Europa piace perché, a torto
o a ragione, riteniamo che possa proteggerci dai nostri stessi errori.
FONDAZIONE CENSIS
128
Sicurezza e cittadinanza
(pp. 621 – 681 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
131
FONDAZIONE CENSIS
Aspettando il Piano carceri
Ci sono voluti quattro anni dall’ultimo provvedimento di indulto per riportare gli
istituti carcerari a vivere gli stessi problemi di allora, con quasi 70.000 detenuti
(nel 2006 erano 60.000) e un tasso di sovraffollamento che supera il 150%, ma
che in alcuni casi oltrepassa il 170% (tab. 1). Andando avanti di questo passo, a
fine 2012 si dovrebbe sfiorare la quota di 100.000 detenuti.
Oltre al sovraffollamento ci sono però altri fattori di disagio, che rivelano quale
sia la gravità della situazione: il 36,9% dei detenuti è straniero; il 24,5% è
tossicodipendente, il 2,3% è dipendente da alcol, l’1,8% è infetto da Hiv; le
guardie penitenziarie sono 39.569, rispetto alle 45.121 previste per legge; il costo
132
FONDAZIONE CENSIS
medio giornaliero per detenuto è sceso dai 131,9 euro del 2007 ai 113,4 euro
stimati per il 2010 (tav. 1).
A questo si aggiunge che circa 30.000 detenuti, pari al 44% del totale, sono in
attesa di uno dei gradi del procedimento. Tra questi, la gran parte (15.111) è in
attesa del giudizio di primo grado. Inoltre 18.769 condannati si trovano a dover
scontare una pena − o una pena residua − inferiore a tre anni (e tra questi 11.601
hanno una pena inferiore a un anno), quindi avrebbero i requisiti per usufruire
delle misure alternative alla detenzione.
Circa 30.000 detenuti si trovano in carcere per avere contravvenuto alla legge
sulla droga e circa 4.000 a quella sull’immigrazione.
Il personale che lavora in carcere risulta completamente insufficiente a gestire una
situazione che diventa di giorno in giorno più complessa: ad essere
sottodimensionate non sono solo le guardie carcerarie, ma anche altre figure più
esplicitamente votate al recupero dei detenuti, come gli educatori e gli assistenti
sociali.
Su questa situazione si innesta il Piano carceri, che si propone di ridurre il
sovraffollamento attraverso tre tipi di interventi:
133
FONDAZIONE CENSIS
- l’ampliamento del numero dei posti disponibili per complessivi 21.709 nuovi
posti. Questi propositi sono stati ridimensionati nel Piano che il Commissario
straordinario ha presentato lo scorso 29 giugno;
- l’introduzione di misure deflattive, con la possibilità di scontare l’ultimo anno
di pena residua agli arresti domiciliari e la messa in prova. Su questo punto è
stata approvata a novembre la legge che dovrebbe riguardare circa 7.000
detenuti;
- l’assunzione di 2.000 nuovi agenti di polizia penitenziaria.
La ripresa del contrabbando
In Italia i fumatori di età superiore ai 15 anni sono circa 11 milioni, pari al 21,7%
del totale della popolazione. L’età media in cui si inizia a fumare è 17 anni, con
una media di 13 sigarette al giorno.
I dati sulle vendite riferiscono di 89,1 milioni di kg di sigarette venduti nel 2009,
con una contrazione del 3,1% rispetto ai 92 milioni del 2008. I dati relativi ai
primi 9 mesi del 2010 confermano un calo nell’ordine dell’1,3% (fig. 2).
Una tale contrazione deve essere senza dubbio spiegata come effetto congiunto
dell’aumento dei prezzi al consumo (un aumento che tra il 2008 e il 2009 è stato
mediamente del 3,8%,) e della minore disponibilità economica indotta dalla crisi.
134
FONDAZIONE CENSIS
Ma la spiegazione non è sufficiente, soprattutto se si considera che il calo nelle
vendite non è supportato da un analogo calo dei consumatori.
I dati sui sequestri negli ultimi quattro anni rivelano una ripresa del commercio
illegale: si passa dalle 240.785 tonnellate di tabacchi esteri sequestrati nel 2006
alle 297.689 del 2009 (tab. 2). Gli addetti ai lavori stimano i danni economici
derivanti dalla contraffazione e dal contrabbando da un minimo del 3% a un
massimo del 5% del fatturato del settore, per un importo che oscilla tra i 500 e i
700 milioni di euro annui.
Un tempo le sigarette di contrabbando, che provenivano principalmente dal
Montenegro, viaggiavano sugli scafi verso le coste della Puglia e della Campania
e venivano vendute soprattutto nel Sud d’Italia. Oggi i mercati di
approvvigionamento sono soprattutto quelli dell’Europa dell’Est e della Cina. Le
sigarette arrivano in Italia da Russia, Moldavia, Ucraina, Bielorussia, Polonia,
trasportate su gomma o per mare. E l’Italia spesso non costituisce più lo sbocco
finale, ma è una terra di passaggio verso altre destinazioni del Nord Europa. Un
tempo l’unico canale di vendita erano i banchetti collocati nei vicoli di Napoli o di
Bari, oggi le sigarette di contrabbando si possono comperare per strada, ma anche
ordinare su Internet e ricevere a domicilio. Rispetto al passato si è modificato
anche il profilo del consumatore, per cui accanto ai giovani o giovanissimi, ci
sono i cittadini extracomunitari.
Pubblico e privato si integrano
in nome della sicurezza
Accanto alle forze dell’ordine, che continuano a svolgere un ruolo centrale nel
controllo del territorio, sono state cooptate a collaborare in un sistema di sicurezza
integrato anche le guardie giurate: 924 aziende attive nel 2008, per un totale di
49.137 dipendenti e un fatturato di 2,4 miliardi di euro.
Quanto all’identikit delle guardie giurate, si tratta per la grande maggioranza di
uomini (le donne sono 4.146 e rappresentano l’8,4% del totale dei dipendenti),
che in oltre la metà dei casi provengono da una regione del Sud d’Italia. In
ragione della tipologia di attività lavorativa, che si svolge per lo più per strada con
turni notturni, prevalgono gli individui giovani o al massimo di mezza età. Le
province dove c’è una maggiore richiesta di guardie giurate sono quelle dove sono
135
FONDAZIONE CENSIS
presenti le città maggiori: a Roma si contano 7.008 dipendenti, a Milano 4.096, a
Napoli 3.814 (tab. 3).
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FONDAZIONE CENSIS
Un’Agenzia per restituire alla collettività
i patrimoni mafiosi
La principale strategia di contrasto alla mafia consiste nel colpire i patrimoni dei
mafiosi, privandoli del principale strumento di potere e di controllo del territorio a
loro disposizione, il denaro. A settembre 2010 sono oltre 11.000 i beni immobili
confiscati alle mafie dallo Stato in tutte le regioni, con l’esclusione della sola
Valle d’Aosta, e tra questi più di mille sono aziende: 6.423 risultano destinati
(tab. 6).
La maggioranza dei beni immobili si trova tra Sicilia (44,7%), Campania (15,1%),
Calabria (13,9%) e Puglia (8,3%), ma è elevato il numero di beni confiscati anche
in Lombardia (913, pari all’8,3% del totale, di cui 184 aziende) e nel Lazio (482,
il 4,4% del totale, di cui 105 aziende); tanto che Milano e Roma si trovano tra le
prime dieci province per numero di beni immobili confiscati (tab. 7).
La graduatoria provinciale vede in testa Palermo, dove si trova ben il 30% del
totale dei beni sottratti (3.316 in valore assoluto), seguita da Reggio Calabria
(9,2%), Napoli (8,3%) e Catania (5,4%); seguono ancora Milano, Caserta, Roma,
Trapani, Bari e Catanzaro, per un totale di 8.195 beni confiscati in questi territori,
pari al 74,2% del totale. Solo in 13 province non si registra neppure un bene
sequestrato.
Si tratta di un patrimonio ingente e molto diversificato, che ha comportato però
notevoli difficoltà nella fase di gestione e ancor più in quelle di destinazione e
consegna, con una quantità di beni destinati (quindi da trasformare in risorsa per
la collettività) che a lungo è stata inferiore al numero di quelli confiscati.
Per risolvere i numerosi nodi e criticità, la soluzione che da tempo e da più parti si
auspicava era quella dell’assegnazione a un soggetto unico della competenza
esclusiva e generale in materia di beni confiscati e, nel rispetto delle prerogative
dell’autorità giudiziaria, di quelli sequestrati.
È proprio quanto è stato fatto quest’anno con l’istituzione dell’Agenzia nazionale
per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità. L’Agenzia, organismo autonomo, dotato di proprie risorse finanziarie
(3 milioni di euro per il 2010 e 4 milioni di euro per il prossimo anno), sotto la
vigilanza del Ministro dell’Interno, si pone come cabina di regia nazionale sulla
materia.
137
FONDAZIONE CENSIS
138
FONDAZIONE CENSIS
La conoscenza della lingua italiana:
un obbligo su cui investire di più
A breve la conoscenza dell’italiano diverrà un requisito essenziale per poter
soggiornare regolarmente sul territorio nazionale. Lo scorso anno, infatti, con la
legge 94/2009 è stato introdotto l’Accordo di integrazione, che vincola il rilascio
del permesso di soggiorno al conseguimento, nell’arco di due anni, di un certo
numero di crediti legati a una serie di obiettivi, tra cui, appunto, la conoscenza
della lingua.
Una recente ricerca del Censis su 13.000 immigrati che lavorano in Italia ha
messo in evidenza come l’8,9% degli immigrati ha un’ottima conoscenza della
nostra lingua, il 33,1% ne ha una conoscenza buona, per la gran parte (circa il
43%) il livello è sufficiente, mentre la quota di chi non conosce a sufficienza
l’italiano risulta pari al 15,1% del totale (tab. 8).
Secondo il monitoraggio annuale sull’offerta formativa per adulti condotto
dall’Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, i migranti che
hanno partecipato, durante l’anno scolastico 2008/2009, ai corsi di istruzione degli
adulti (Ida) presso i Centri territoriali permanenti (Ctp) sono stati 134.627, ovvero
il 44,3%, dell’utenza. Di questi, 64.634 si sono rivolti ai Ctp per fruire di uno dei
4.212 corsi Cils attivati durante l’anno scolastico, e 38.437 sono state le
certificazioni rilasciate al termine dei corsi.
139
FONDAZIONE CENSIS
140
FONDAZIONE CENSIS
Il 68,8% degli stranieri che hanno frequentato un corso Cils risiede nelle regioni
settentrionali. Si tratta in oltre la metà dei casi di persone giovani, di età compresa
tra i 20 e i 34 anni, anche se c’è una significativa percentuale (pari al 14,2%) di
giovanissimi sotto i vent’anni. I corsi sono frequentati prevalentemente da
cittadini originari del Marocco (15%), Cina (7,2%), Romania (5,9%) e
Bangladesh (5,3%).
Gli immigrati come occasione
per ripensare i servizi per l’impiego
I lavoratori stranieri nel 2009 sono 1.898.000 (il 68,4% dei quali proviene da
Paesi non Ue) e rappresentano l’8,2% del totale degli occupati, con un incremento
dell’8,4% rispetto all’anno precedente. Tanto il tasso di attività quanto quello di
occupazione evidenziano una partecipazione al mercato del lavoro della
popolazione straniera decisamente più elevata rispetto alla popolazione italiana:
gli stranieri presentano un tasso di attività del 71,4% contro il 47,3% degli italiani,
mentre il tasso di occupazione è del 63,4% per gli stranieri e del 43,7% per gli
italiani. Maggiore di quello degli italiani, e in preoccupante crescita, è invece il
tasso di disoccupazione, che è salito di ben 2,7 punti percentuali nell’ultimo anno,
arrivando all’11,2% contro il 7,5% degli italiani.
Uno degli strumenti che andrebbero utilizzati al meglio per favorire l’ingresso e la
permanenza degli immigrati sul mercato del lavoro sono i servizi pubblici per
l’impiego, cui risulta accedere un numero sempre più alto di stranieri, come
testimonia una recente indagine realizzata dal Censis su un campione di oltre
13.000 lavoratori stranieri. Dall’indagine risulta che uno straniero su tre si è recato
personalmente a un Centro per l’impiego (Cpi) almeno una volta, mentre solo il
10% dichiara di non conoscerli affatto. Appena l’1,9% degli intervistati, invece,
afferma di aver trovato lavoro attraverso l’intermediazione di un Cpi (dato che
può essere confrontato con il comunque basso 3,9% riferibile ai lavoratori
italiani). La stragrande maggioranza dei cittadini stranieri (il 73,3% del totale) ha
invece trovato lavoro utilizzando i contatti con amici, parenti e conoscenti (fig. 3).
Ma se viene meno questo ruolo, in cosa i Cpi si pongono come punto di
riferimento per gli immigrati che vivono in Italia? Dall’indagine emerge che le
ragioni che spingono gli stranieri a rivolgersi ai servizi pubblici per l’impiego
sono estremamente variegate, e sembrano andare ben oltre la loro effettiva
capacità di intervento nell’intermediazione lavorativa (fig. 4). I Centri per
l’impiego sono luoghi che i cittadini stranieri frequentano o in cui comunque
transitano, anche a prescindere dagli obblighi di legge, per avere servizi legati al
collocamento o al miglioramento della posizione lavorativa, e non esclusivamente
per avere una proposta di lavoro. Tutto ciò dovrebbe costituire un stimolo al
ripensamento delle funzioni e delle priorità d’azione di tali strumenti, come d’altra
parte la stessa legge prevede.
141
FONDAZIONE CENSIS
Cristiani Democratici
Democratici di Sinistra (DS)
Partito Politico italiano
Sito Lega Nord
Leader Umberto Bossi
Sito UDC
Leader Pier Ferdinando Casini
Sito Italia dei Valori
Leader Antonio Di Pietro
Sito Movimento per le Autonomie
Leader Raffaele Lombardo
mpa
Sito Alleanza per L'Italia
Leader Francesco Rutelli
alleanza per l'italia
Sito Sudtiroler Volkspartei
Leader Luis Durnwalder
svp I Democratici
Federazione dei Verdi
Federazione Laburista
Forza Italia Union Valdotaine
Libera Roma Sito del Partito Democratico
Leader Pier Luigi Bersani
Sito del Popolo della Liberta'
Leader Silvio Berlusconi
Sito Radicali
Leader Emma Bonino
Partiti non rappresentati in Parlamento
Sito Partito Socialista
Leader Riccardo Nencini
Sito Movimento a 5 stelle
Leader Beppe Grillo
Sito UDEUR
Leader Clemente Mastella
Sito dei Verdi
Leader Angelo Bonelli
verdi
Sito Sinistra e Liberta'
Leader Nichi Vendola
Sito Destra Sociale
Leader Roberto Fiore
destra tricolore
Sito Rifondazione Comunista Leader Marco Ferrero
Sito Comunisti italiani
Leader Oliviero Diliberto
pdci
Sito La Destra
Leader Francesco Storace
movimento politico culturale
Movimento di Beppe grillo
Partito Politico per il Sud
Comitato Difesa Roma (Esquilino)
Partiti Politici italiani*
Alleanza per l'Italia
La Margherita Ulivo
Democrazia Cristiana
Centro Cristiano Democratico (CCD)
Partito Democratico (PD)
Comunisti Italiani
Liga Veneta Repubblica
Movimento Monarchico Italiano
Movimento per L'Ulivo
Partito Pensionati
Partito Popolare Italiano
Partito Repubblicano Italiano
Partito Umanista
Patto Segni
Socialisti Democratici Italiani
Socialisti Italiani
Laburisti Italiani
Sudtiroler Volkspartei (SVP)
UCI - Unione Cattolica Italiana
UDEUR - Popolari per l'Europa